Metti Gheddafi in commissione Onu
di Dimitri BuffaDel 1 ottobre 2002 da L' Opinione
Dittatori di tutto il mondo esultate: per il 2003 sarà la Libia del colonnello Gheddafi a reggere la presidenza di turno della Commissione dei diritti umani delle Nazioni unite. Ha deciso così lo scorso 23 luglio l'organismo unitario del continente africano (Oua), che per turnazione aveva diritto ad indicare un proprio diplomatico a quel consesso per l'anno prossimo. La designazione quasi all'unanimità è caduta su Gheddafi, meglio sulla sua diplomatica all'Onu Nayat al Ayyayi, e così sia. In fondo poteva andare peggio, come direbbe Woody Allen, potevano scegliere Mugabe. Nemmeno per un secondo ai rappresentanti di un continente (di cui già il grande scrittore Evelyn Waugh si divertiva a mettere in luce le contraddizioni tra aneliti indipendentisti e scelte liberticide nel romanzo "Misfatto negro") che annovera premi Nobel per la pace come Nelson Mandela è venuta in mente un'alternativa: Gheddafi doveva essere e Gheddafi sia. E questo spiega anche con il senno di poi, l'iperattivismo della famiglia del colonnello per tutto il mese di agosto: dall'entrata nella Juventus e nella Fiat, all'organizzazione della finale di supercoppa italiana sul bel suol di Tripoli, alle mostre di pittura di Gheddafi junior a Roma, con tanto di stretta di mano all'ex premier Massimo D'Alema, uno che aveva già fatto anticamera nel deserto davanti alla tenda del padre fino alle due di notte per trattare degli affari delle imprese italiane in Libia. Per la verità niente affatto fortunati. A tal proposito proprio oggi si riunisce quel comitato misto italo-libico che dovrebbe risolvere i casi dei debiti mai pagati dalle imprese libiche ad altre imprese italiane non coperte da garanzia Sace dagli anni '70 in poi, qualcosina come 1600 di vecchie esclusi gli interessi, che stavolta ha pensato bene di lasciare a casa il presidente di dette imprese (o meglio dell'Airil, l'associazione che lo rappresenta), il dottor Leone Massa. Reo di avere infastidito il colonnello con le sue dichiarazioni alla stampa. Ma il tentativo di Gheddafi e della Libia di rifarsi una verginità internazionale sul campo dei diritti umani cozza contro una realtà di sangue, morti, torture e incarcerazioni senza processo fino a 15 anni che fa paura a qualunque persona normale. Basta scorrersi l'ultimo rapporto completo di Amnesty sulla Libia, quello del 1997, per leggere cose inenarrabili: si va dalle esecuzioni extra giudiziarie dentro e fuori dalla repubblica di jamahiria, alle detenzioni senza processo di centinaia di oppositori che datano in alcuni casi dai primi anni '80, alle torture per estorcere confessioni, all'obbligo per legge di denunciare i propri congiunti, alla pena di morte applicata per reati come lo spionaggio o il tradimento della rivoluzione, alle pene corporali che includono il mozzamento delle mani per i ladri. La Libia ieri e oggi è soprattutto questo e non si contano gli appelli disattesi di Amnesty a Gheddafi, che continua ad aderire e firmare tutti i protocolli Onu contro le torture e le detenzioni illegali, salvo poi fare come gli pare a casa propria. Di casi singoli se ne contano a centinaia se non a migliaia, ma uno per tutti sta diventando il simbolo dell'oppressione del colonnello sul popolo libico, quello del medico dentista Omran Omar al Turbi, in carcere da oltre 15 anni nella prigione di Abu Salim a Tripoli. È uno di quelli che ha usufruito né dell'amnistia del 1988 né di quella dell'agosto di quest'anno, probabilmente varata in fretta e furia dopo la designazione della Libia alla presidenza della commissione diritti umani all'Onu. Per la cronaca in Libia si può venire prelevati durante un banchetto nuziale, come accadde all'ufficiale dell'esercito libico Al Saghier Al Shafii nel 1994 e rimanere per mesi detenuto senza che i parenti siano informati sul luogo della prigionia. Negli anni '80 andava anche peggio: il Sismi di Santovito forniva ai sicari di Gheddafi i nomi e le foto dei dissidenti e i loro indirizzi in Italia e costoro venivano regolarmente assassinati sotto la supervisione dei nostri servizi militari. Di queste cose hanno parlato in Commissione stragi sia l'ammiraglio Martini sia il suo ex sottoposto Demetrio Cogliardo. "Possino cecarli", come si dice a Roma, i grandi idolatri dell'obbligatorietà dell'azione penale, se mai qualcuno è stato indagato o solo interrogato come testimone per questa vergogna nazionale.