I bidoni di Gheddafi all'ItaliadiI bidoni di Gheddafi all'Italia
di Leone MassaDel 16 ottobre 2003 da L' Opinione
Ieri a Montecitorio, durante un incontro col contenzioso Italia-Libia dura da 33 anni circa e durante questo periodo abbiamo assistito all’inerzia, forse dettata da amor di pace (ma non so fino a quanto) dei governi italiani che in questo intervallo di tempo si sono succeduti.
Ricordo a chi è debole di memoria ed in special modo ai politici che rappresentano il popolo italiano:
- L’espulsione dei nostri connazionali dalla Libia nel ‘70;
- L’istituzione in quel Paese del giorno della vendetta per ricordarlo, un atto indegno di un popolo civile in quanto si trattava di gente che con il proprio lavoro ha reso fertile tutta la fascia costiera di oltre 2000 Km (ricordiamo quando negli anni ‘30 la Libia esportava dalla Cirenaica il proprio grano verso l’Italia, mentre oggi lo importa!) costruito strade, ferrovie, scuole, ospedali e creato tante attività produttive;
- L’espulsione dei resti mortali dei nostri soldati, cosa mai da me sentita sia avvenuta in altro Paese del mondo, dove, al contrario, i morti vengono onorati e rispettati, specialmente se soldati;
- La richiesta all’Italia dei danni di guerra e del periodo coloniale;
- La richiesta da parte di Tripoli all’Italia dello sminamento dei territori libici quando su quelle terre sono passate oltre alle armate italiane quelle tedesche, inglesi, americane, canadesi, etc.;
- La richiesta della restituzione dei resti mortali dei deportati libici alle Tremiti e poi noto, dai documenti fornitemi da un vecchio ambasciatore italiano residente in America, che la gran parte di essi fecero ritorno nel 1912 in Libia ed altri chiesero di entrare a far parte dell’esercito italiano per cui fu istituito il primo reggimento ascari;
- L’occupazione ed il sequestro, negli anni ‘80 dei cantieri di lavoro delle imprese italiane che lavoravano in Libia nonché il blocco dei pagamenti per lavori e forniture alle aziende italiane per oltre 1700 miliardi di lire dell’epoca e per i quali oggi ci vedete ancora qui presenti a rivendicare i nostri diritti.
Molti imprenditori che operavano in Libia dovettero subire umiliazioni e la privazione della libertà, altri, invece, per non fare questa fine, assieme al loro personale scapparono dalla Libia lasciando documenti personali e dell’azienda attestante i loro crediti. Trascuro altri avvenimenti ancora oscuri. Due missili che furono lanciati dalla Libia su Lampedusa, forse, furono dall’Italia stessa forniti al Governo libico. Questa ipotesi mi è sorta per aver costatato un tavolo separato riguardante gli oltre 250 milioni di dollari per forniture militari nella trattativa con la delegazione libica per il pagamento dei crediti. E tutto questo da un Paese dichiaratosi amico! E, non ultima (perché non so cosa altro abbia fatto contro l’Italia e gli italiani nelle ultime 24 ore), le dichiarazioni del colonnello Gheddafi del 7 ultimo scorso che minaccia le imprese italiane, attualmente operanti in Libia, di cacciarle e bloccare i loro pagamenti, così come fece con le altre centinaia di aziende negli anni ‘80, rivendicando i famosi danni di guerra e del periodo coloniale.
Tutto ciò, guardato con gli occhi di chi fosse estraneo ai due Paesi conferma la mia opinione, espressa nelle interviste rilasciate ai vari quotidiani che mi hanno dato spazio, con la quale affermavo che il colonnello Gheddafi ha, sempre e con ogni mezzo, lecito od illecito, saputo difendere gli interessi del suo Paese. E se, con lo stesso occhio estraneo, si guardasse al comportamento dell’Italia in questi anni, il giudizio sarebbe mortificante per chi ci ha governato e ci governa. Infatti ripercorrendo solo gli ultimi 33 anni ricordo: L’allora ministro degli Esteri Moro nel ‘70 assicurò, dopo gli incontri con il nuovo regime di Tripoli, la nostra comunità in Libia di aver ricevuto assicurazioni e quindi poteva riassicurarla che sarebbe stata salvaguardata nei suoi diritti e nella sua libertà di operare in quel Paese, mentre, dopo due mesi, fu espulsa ed espropriata dei propri beni senza che il governo italiano battesse ciglio. Non solo questo!
Lo stesso stato italiano non solo non ha risarcito i suoi concittadini completamente del danno subito, per cui ancora oggi attendono che dalla finanziaria prossima esca l’elemosina per loro, ma, sentite ancora: in tutti questi anni lo stato Italiano ha preteso da loro le tasse sul loro lavoro ed anche dalla loro pensione! Successivamente si recò a Tripoli il nostro ministro del Commercio Estero, Manca, e dopo i colloqui con il ministro dell’Economia libico, Dorda, e le sue assicurazioni affermò che le imprese italiane avrebbero potuto esportare verso la Libia senza problemi ed anche contro documenti la propria merce perché i pagamenti sarebbero stati rispettati. Dopo poco, invece, il blocco dei pagamenti. Negli anni ‘80 l’allora ministro degli Esteri, Andreotti, organizzò una sua missione in Libia con l’ambasciatore Attolico per risolvere il problema dei crediti delle imprese italiane e raggiunse un accordo, che porta il nome dell’ambasciatore, grazie al quale veniva compensato in petrolio il credito delle imprese italiane.
Tale pagamento, però, veniva subordinato alla presentazione di adeguata documentazione di esistenza del credito certificata anche dalla controparte libica. Ma ne usufruirono, attraverso l’Agip, ben poche aziende già provviste di tale documentazione e comunque con una perdita di circa il 35% sul loro credito a differenza di quelle tedesche come la Belfinger che, per un analogo accordo tra un funzionario della Deutsche Bank che deteneva il 14% delle azioni della suddetta azienda ed il Governo libico, percepì il 100% del credito. Infatti, contemporaneamente all’accordo Attolico, le istituzioni libiche si rifiutarono di rilasciare certificazioni sui crediti, per cui i pagamenti da parte dell’Agip si bloccarono e, cosa che solo in Italia può succedere, l’Agip rimise alla Libia le somme accantonate per il pagamento alle imprese italiane. Negli anni ‘80 alcune aziende sequestrarono i beni libici in Italia e recuperarono i loro soldi ma subito intervenne il ministro Vassalli con un decreto legge che non permetteva più questo tipo di azione. Contemporaneamente i titolari delle aziende che avevano lavorato in Libia tra mille difficoltà burocratiche e che avevano ingenti pagamenti bloccati si rivolsero alla giustizia libica e videro confermato con sentenza definitiva il loro credito, ma di soldi, ad oggi, non ne hanno visto neanche un centesimo.
Nel frattempo in Italia le loro aziende sono fallite o stanno per fallire. Altre aziende hanno adito, come da contratto, la camera di commercio internazionale di Parigi che con proprio lodo ha confermato il credito, oltre alla rivalutazione monetaria e gli interessi, ma, anche di fronte a ciò, la Libia non ha pagato! Ancora, altre aziende si sono rivolte alle Corti italiane per ottenere il risarcimento dei beni e delle attrezzature loro confiscate, ma le Corti italiane si sono dichiarate illegittimate a pronunciarsi - pur riconoscendo l’esproprio o confisca avvenuti - in quanto si trattava di atto propagandistico di uno stato straniero. A questo punto ci si domanda quale difesa possa avere il cittadino italiano in casi del genere. (Mi dispiace non aver invitato personalmente anche il ministro Castelli). Il ministro Dini nel 1997 volle affrontare il contenzioso Libia-Italia e si recò più volte in quel paese, forse sollecitato dalla stessa diplomazia libica che vedeva nell’Italia un possibile corridoio perché fosse tolto l’embargo al proprio paese.
L’Italia, invece di pretendere il pagamento dei propri crediti, concesse il passaggio attraverso al gasdotto libico, che porterà il prodotto in tutta Europa. Il gasdotto viene realizzato con investimenti italiani dell’Eni e per l’impegno finanziario libico è stato perfino offerto un finanziamento da parte di una banca Italiana. Nel 1997, per il silenzio delle nostre istituzioni sul problema crediti, le imprese che avevano affidato la difesa dei propri interessi al ministero degli Esteri erano 54. Oggi - dopo le battaglie sostenute dall’Airil - sui quotidiani, sono 120 e col disappunto della Farnesina. Nel 1998 lo stesso ministro Dini concluse un accordo con il governo libico e venne affrontato anche il problema dei crediti delle imprese italiane, sia di quelli della Sace per gli indennizzi pagati sia quelli non assicurati, e fu stabilito di organizzare un Comitato Misto Italo-Libico per risolvere il problema. Il 26 ottobre 2000 la Sace, che opera con soldi del Tesoro italiano e quindi dei cittadini, concluse un accordo con il Governo libico per i crediti da essa vantati a seguito degli indennizzi già erogati, concedendo un abbuono ai libici di 260 milioni di dollari di sola sorta capitale degli anni ‘80.
Il 13 dicembre 2000 la Farnesina concluse un accordo con i libici per la difesa degli investimenti italiani in Libia. Accordo approvato in Senato ed in questi giorni oggetto di discussione alla Camera; sperando e augurandoci che i parlamentari abbiano notato le differenze tra il testo base (in inglese) degli accordi bilaterali normalmente adoperati dal Mae e quello invece appositamente stipulato con la parte libica. Il 22 agosto 2002 i libici hanno bloccato tutti i contratti ed i pagamenti alle imprese italiane, disattendendo l’accordo del 13 dicembre 2000. Il 7 agosto 2002 venne pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il testo di una decisione del Cipe che - su proposta del ministro delle Attività Produttive, Marzano, ed a firma del ministro dell’Economia, Tremonti, con l’approvazione della Corte dei Conti - autorizzava la Sace a concedere per l’anno 2002 garanzia sovrana alle imprese operanti con la Libia sino ad 1 miliardo di Euro. Va rimarcato che il rischio Paese-Libia rilevato dal bollettino dell’Ice di aprile 2002 veniva definito alto. Il 28 ottobre 2002 il nostro presidente del Consiglio sottoscrisse a Tripoli con l’omologo libico ed in presenza del colonnello Gheddafi, un accordo che metteva fine al contenzioso italo-libico ed annunciava che si era messa una pietra sul passato.
Il testo dell’accordo viene segretato e non è consentito, in una nazione libera come si dice sia l’Italia, al cittadino italiano di conoscerne il testo. Grazie alle insistenze dell’Airil, la Farnesina ha rilasciato un foglio senza intestazione con riportato solo l’art.8 dell’accordo riguardante i crediti non assicurati vantati dalle imprese italiane. Vi erano contenuti termini ben precisi e cioè: che entro il 30 novembre l’Ali (azienda di diritto libico) avrebbe dovuto esaminare tutta la documentazione presentata a suo tempo dalle aziende creditrici al ministero Affari Esteri e l’Ubae (banca con il 42% di capitale libico) a calcolare la rivalutazione monetaria e gli interessi, presentando entrambe per quella data un proprio rapporto. Il 15 dicembre il Comitato misto Italo-Libico si sarebbe dovuto riunire e trarne le conclusioni da fornire ai due Governi. Infine si stabiliva, sempre all’art.8, che la Libia si impegnava a pagare entro e non oltre il 31 marzo 2003.
Questa data non è stata rispettata e nel mese di aprile successivo il viceministro al Commercio Estero, Urso, di ritorno da Tripoli, dichiarava che le imprese italiane sarebbero state pagate entro la fine di quel mese. Così pure il ministro degli Esteri Frattini a giugno, dopo una visita a Tripoli, dichiarava che l’Italia si doveva adoperare perché fossero tolte le sanzioni alla Libia e che questo Paese era un vero amico dell’Italia. Il 7 ottobre scorso il colonnello Gheddafi, nella annuale manifestazione del giorno della vendetta per la cacciata degli italiani, ha minacciato le imprese italiane attualmente operanti in Libia di espellerle e di bloccare i pagamenti se l’Italia non soddisferà le proprie richieste di danni di guerra e del periodo coloniale. Questi i fatti avvenuti tra i due Governi finora. Vediamo adesso cosa hanno fatto gli imprenditori in tutti questi anni per sensibilizzare il nostro Governo sui loro problemi, quando si sono resi conto che non era una questione di diritto, ma una questione politica fra i due paesi.
Ebbene, riprendendo una frase del mio concittadino, il grande Totò, essendo non vincoli ma sparpagliati, ognuno di noi ha cercato di sensibilizzare il politico amico o scritto alle massime figure istituzionali, oppure si è affidato alle confederazioni a cui era iscritto. Così solo nel ‘97 siamo riusciti a far sì che nell’accordo Dini col Governo libico si includesse anche la questione crediti. Tengo a far presente che in quell’anno venni a sapere del fatto solo per puro caso in quanto informato da un amico ancora iscritto a Confindustria (il mio stabilimento lo avevo chiuso nell’89 e dal ‘90, non avendo più soldi per versare la quota, chiesi alla mia Unione Industriale di cancellare il nome della mia azienda). Un episodio che dimostra in quale Italia viviamo è poi il seguente. Mi recai al Ministero degli Esteri per consegnare la documentazione del credito della mia azienda e domandai perché non fosse stato inviato alla stampa un comunicato per avvisare tutte le imprese creditrici dell’opportunità di recuperare i loro crediti con la Libia.
Mi fu risposto che non avevano nessun obbligo in tal senso perché, secondo loro, era sufficiente aver informato le Confederazioni di categoria. A questo punto replicai all’allora Consigliere perché dovevano essere esclusi dalla difesa dei loro diritti quegli imprenditori o commercianti italiani che hanno sempre e soltanto lavorato e pagato le tasse, senza aderire ad alcuna associazione di categoria. Con la presunzione, acquisita forse dal posto che occupava, in maniera sdegnosa, mi riconfermò quanto asserito in precedenza. Fin quando vi saranno elementi siffatti l’Italia non potrà dichiararsi una nazione civile e progredita! Nel 2000, dopo tre anni di inutili attese e senza notizie sull’avanzamento delle trattative con Tripoli, avendo un napoletano alla presidenza di Confindustria, riuscii a far organizzare dalla stessa un’assemblea di tutte le aziende creditrici della Libia. In quella occasione, nel mio intervento, riferendomi ad un vecchio detto, “chi vuole vada e chi non vuole mandi”, proposi che fosse uno di noi a rappresentare e difendere i nostri diritti con tutte le Istituzioni, sia italiane sia libiche.
Purtroppo il boomerang (dico così per le esperienze di questi tre anni) tornò sulle mie spalle, in quanto tutti i presenti all’unanimità elessero me. La mia prima iniziativa fu quella di chiedere un’audizione presso la Commissione Attività Produttive della Camera per investire del problema tutti i gruppi parlamentari in essa rappresentati e chiedere che facessimo parte del Comitato Italo- Libico per i crediti. La seconda fu quella di chiedere alla Farnesina l’elenco e gli indirizzi di tutte le aziende creditrici ma mi fu risposto che, per ragioni di privacy, non potevano fornirli. Come avrei potuto informare le aziende sulle mie iniziative ed avere almeno il conforto del loro parere? Un napoletano non si dà per vinto e lo ottenni per altre strade! Il 20 settembre di quell’anno io ed il cavaliere del lavoro Sideri avemmo audizione innanzi alla X Commissione, relazionano sul problema ed avanzando le nostre richieste. Il 15 novembre del 2000, dopo gli accordi Sace con Tripoli e dopo le nostre sollecitazioni, la Confindustria organizzò un incontro delle imprese creditrici con Mae e Sace.
In quella sede, alle mie contestazioni, il Dott. Pernozzoli, rappresentante Sace, affermò cose non vere, dando ragione a Stefania Rimini di Report che aveva titolato il suo servizio giornalistico: “Sace un ente che tace”. Per ragioni ben comprensibili, in quella occasione il cavaliere del lavoro Sideri propose di renderci liberi da condizionamenti e fondare un’associazione che con decisione affrontasse i problemi. Ecco perché e come è nata l'Airil il 10 gennaio 2001. Il 12 gennaio 2002 l’ambasciatore Badini invitava l’Airil a far parte del Comitato Misto Italo-Libico per i crediti. Incominciammo le nostre battaglie cercando politici di tutte le estrazioni e quotidiani che volessero riportare i nostri comunicati o le nostre iniziative ma trovammo la porta aperta solo a L’opinione di Arturo Diaconale che pubblicò la mia prima intervista col titolo “L’Italia ancora sotto il giogo dell’amante libica”. Rinnovo il mio grazie ad Arturo Diaconale perché se oggi su molti giornali, con cadenza quasi settimanale, si parla dei crediti delle imprese italiane è merito suo.
Ecco un esempio di come possa essere utile un quotidiano a poca diffusione ma veramente libero! E devo ringraziare anche Dimitri Buffa, un giornalista che quando affronta delle battaglie non si fa comprare, che ha ottenuto un ingente spazio sull’argomento prima sul quotidiano Libero di Feltri (tre pagine complete, compresa la prima) e poi su La Padania. Devo anche a lui se un giorno mi sono sentito chiamare da Daniele Capezzone e Rita Bernardini che mi hanno invitalo ad esporre il nostro caso in occasione della riunione del Comitato Nazionale dei Radicali Italiani: in quella sede ho avuto la fortuna di conoscere queste due eccezionali persone. Quale altro partito o movimento italiano ha mai fatto una cosa simile nel proprio Comitato Nazionale, se non parlare di spartizione di poltrone e di potere? Ho notato anche la loro sensibilità a non chiedermi l’iscrizione al movimento, forse comprendendo dalle mie parole che il mio desiderio di essere sempre libero da condizionamenti mi ha indotto a non aderire ad alcun movimento politico o partito; certamente non mi sono potuto esimere, quale uomo sensibile, dal sostenere le nobili cause per le quali quotidianamente si batte l’Associazione Luca Coscioni, a cui sono onorato di appartenere.
Mi piace ricordare la difficile battaglia sostenuta da detta associazione, ossia il diritto alla ricerca sulle cellule staminali germinali. Ritornando alla questione crediti, va ricordato che a giugno 2001 a Roma ed a settembre dello stesso anno a Tripoli si è riunito il Comitato misto per i crediti; un altro si sarebbe dovuto tenere a dicembre dello stesso anno ma è andato deserto per l’indisponibilità della delegazione libica. Nel frattempo e sino al maggio del 2002, si sono succedute diverse visite di delegazioni di nostri politici e parlamentari. Taluni, accompagnati da industriali ed operatori economici italiani, hanno compiuto numerosi viaggi a Tripoli abbagliati da articoli di organi di informazione inneggianti alle ricche aspettative che potevano loro offrire gli idilliaci rapporti italo-libici. Al loro ritorno i politici rilasciavano dichiarazioni di importanti incontri avuti a Tripoli con le massime Autorità di quel Paese con i quali avevano parlato di tutto tranne che del problema crediti. Alcuni, da me contattati, mi risposero di non essere a conoscenza di questo problema e di non esserne stati informati dalle nostre rappresentanze istituzionali in quel Paese. Non ci siamo scoraggiati ed abbiamo inviato una lettera informativa ai 614 deputati ed ai 320 Senatori.
Questo avveniva il 25 giugno dello scorso anno ed ebbe il risultato che una sessantina di Parlamentari presentarono interrogazioni al presidente del Consiglio con l’interim per gli Esteri, ai ministri delle Attività Produttive, del Lavoro ed al viceministro con delega per il Commercio Estero. Rispose il sottosegretario Mantica con le solite rassicurazioni. Avevo inviato ai 60 Parlamentari, prima che ricevessero tale risposta, il testo di come replicare. Non lo fecero forse perché molti di essi furono contattati dall’ambasciata Libica. La stessa cosa so sia avvenuta con i quotidiani che avevano affrontato in modo energico il nostro problema. Guarda caso qualcuno di essi non ha più pubblicato un nostro articolo o affrontato il problema. A settembre seppi che da Tripoli veniva fatta pressione per una visita del nostro presidente del Consiglio per cui scrissi una lettera allo stesso ed al vicepresidente Fini chiedendo un colloquio urgente.
Il 25 ottobre fui ricevuto dal vicepresidente Fini (e lo può confermare la dott.ssa Ortu qui presente) al quale, in presenza del suo capo di Gabinetto Sfrecola e del Ministro Ragaglini, che avrebbe accompagnato il Presidente Berlusconi a Tripoli, dichiarai che non sarei stato soddisfatto se al ritorno del Presidente il problema non fosse stato risolto con accordi ben precisi sulla data di pagamento. Purtroppo ciò che è avvenuto è stato ampiamente da me già illustrato in precedenza, ma non voglio concludere questo argomento senza informarvi che il 21 maggio scorso scrissi al capo dello Stato. Sono sicuro che Ciampi non avrà nemmeno letto la mia lettera; infatti mi è giunta una risposta dal suo consigliere diplomatico, ambasciatore Puri Purini, alla quale non ho dato seguito per evitare inutili polemiche. Ma da questa sala mi sia consentito chiedere al nostro presidente Ciampi: Sig. presidente, Lei ci invita a cantare a tutta voce l’inno nazionale Fratelli d’Italia, io lo sto facendo da molti anni, ma nelle Istituzioni non trovo alcun fratello, mi sa dire dove sono? Avanti alla commissione Esteri ed Industria del Senato il 15 luglio scorso ho prospettato le due soluzioni al problema crediti.
I rappresentanti della minoranza e della maggioranza si sono dichiarati favorevoli ad appoggiare la seconda mia soluzione: quella della garanzia sovrana dello stato italiano agli istituti di credito. Alla Camera l’On. D’Agrò, nella replica, ha chiesto al governo che la soluzione della garanzia fosse presa in esame con celerità per evitare che tante altre aziende fallissero. Cosa si sta facendo? I nostri governanti e le forze politiche lo sanno che significa essere sotto il torchio delle banche e degli strozzini? Sanno quanto costa allo stato in incentivi e finanziamenti un posto di lavoro? Negli anni ‘80 ricordo che era di circa 500 milioni, oggi non lo so. La perdita di aziende e di posti di lavoro è un danno incommensurabile per l’economia nazionale. Si provveda con urgenza perché la pazienza ha un limite. Poche parole voglio dire sugli altri argomenti ma che siano di incentivo al senso di responsabilità della classe politica tutta di questo Paese. In merito alla doppia imposizione fiscale e contributiva a carico delle imprese che lavorano in Libia, espongo quanto segue. Questo è un problema già affrontato da me negli anni ‘80 quando il console Cipollini ricostituendo l’Easit per l’assistenza agli italiani in Libia mi dette l’incarico di interessarmi del problema.
A Roma conobbi il competente dirigente dell’Inps, Dott. Cuzzocrea. Costui mi informò che non vi era nessun accordo bilaterale con la Libia. Ad oggi mi domando e domando alle Istituzioni: è sopraggiunto un accordo in tale senso? Domando: una ditta che lavora in Libia - attraverso una propria filiale in quel Paese - assume il personale tecnico dall’Italia e deve pagare i contributi per l’assicurazione sugli incidenti di lavoro e quelli previdenziali in quel Paese ma, ai fini pensionistici, quei soldi rimangono in Libia come è stato per il passato o c’è un accordo che possono questi ricongiungersi con i versamenti precedenti? Un’altra domanda vorrei fare: che fine hanno fatto i contributi versati all’Inas libica per le migliaia di nostri tecnici e operai negli anni ‘70 ed ‘80? Non posso accettare quanto mi rispose un funzionario di un’associazione facendomi rilevare che dall’87 c’è una legge che obbliga l’impresa a pagare anche in Italia i contributi assicurativi. In questo caso l’impresa avrebbe un doppio costo e sarebbe non più competitiva.
Con la disoccupazione che abbiamo si troverebbe manodopera che accetterebbe ben volentieri di non lavorare a nero e qualche ora alla settimana in cambio di un lavoro ben retribuito in Libia, ma per non aggravarsi di altri costi l’azienda deve preferire personale pachistano, turco o filippino. Vi sembra giusto? In merito alla doppia imposizione fiscale va invece segnalato quanto segue. Un’azienda italiana che opera in Libia, come detto prima, dovrà avere una sua filiale in quel Paese ed ha l’obbligo della registrazione e di pagare le tasse. Gli utili netti che ritornano in Italia vengono cumulati con quelli dell’azienda madre in Italia e tassati di nuovo. Vi pare giusto? Quale convenienza c’è nel lavorare all’estero rimanendo la sede in Italia? Circa l’accordo di tutela degli investimenti italiani in Libia sottolineo che questo accordo è stato siglato alla Farnesina con i Libici il 13 dicembre 2000 senza consultare le Associazioni degli imprenditori o gli imprenditori stessi. Mi sorge il dubbio che sia il solito pastrocchio perché è in gran parte stravolto il testo originale base in inglese usato normalmente dal ministero degli Esteri.
Speriamo che l’altro ieri i deputati abbiano avuto il buon senso di modificarlo per tutelare meglio le imprese che andranno ad operare in Libia. Il presidente Berlusconi ci aveva promesso una ristrutturazione della Farnesina e quindi anche delle nostre rappresentanze all’estero. Sino ad oggi è rimasto tutto come prima. E’ più importante se manca lo champagne al club della Farnesina o che la struttura abbia nel suo seno persone che vengono da un’attività professionale già collaudata come commercialisti, avvocati ed esperti (in quanto hanno vissuto certe esperienze) sui vari problemi che potrebbero trovare le imprese italiane che operano all’estero e con l’estero? Anche per tutto questo attendiamo una risposta. Quindi, a conclusione di questo mio intervento, desidero domandare al governo ed ai rappresentanti del popolo italiano alla Camera ed al Senato: la nostra proposta di soluzione del problema crediti con una garanzia sovrana dello stato agli istituti di credito disponibili a pagare le imprese creditrici della Libia ed attendere che la stessa Libia dia attuazione agli accordi di Tripoli del 2002 viene accolta ed in un tempo ben determinato sarà attuata attuata?
Attendiamo con urgenza una risposta. Annunzio che alla fine di questa mia esperienza, se la vedrò, con l’aiuto di qualche amico scrittore o giornalista, scriverò un libro su questi anni nei palazzi romani. Sarà un libro bianco satirico-drammatico sulla falsariga del Corricolo di Alessandro Dumas, esperienze di un viaggio fatto a Napoli nel 1835. Questo comincia con questa frase: “Napoli è una città formata da due strade dove si può circolare ed altre 500 dove è meglio non avventurarsi”. Dopo 168 anni, a Napoli nulla è cambiato, anzi neanche in quelle due si può circolare. Il titolo del mio libro potrebbe essere “Esperienze romane” con sottotitolo “il sovrano sale a piedi ottantasette gradini”, riferendomi alla mia esperienza quale membro del popolo sovrano quando mi sono dovuto recare alla tribuna della Camera per assistere al question time.