Gheddafi: com’è difficile trattare con l’imprevedibile colonnello di Tripoli

di Filippo Ceccarelli

Del 23 ottobre 2003 da La Stampa

Ah Gheddafi ! Ahi Gheddafi ! Vatti a fidare di Gheddafi…e però si deve, per forza. È più di un quarto di secolo che gli italiani sono costretti a fidarsi, tremando, del Colonnello. E lui lo sa bene. Ha preso il tè con Fanfani, discusso del monoteismo e del greggio con Andreotti. Si è fatto dare del “Capitan Fracassa” da Craxi; però ha trattato come uno straccio De Michelis, chiamato insistentemente “De Mecclis” durante una catastrofica visita a Tripoli. Davvero Gheddafi la sa lunga. Come conosce lui i politici italiani, nessun altro al mondo. Ha restituito un peschereccio a Mario Capanna, regalato una scimitarra a D’Alema e un preziosissimo sorrisone a Dini. Il Cavaliere l’ha certamente incuriosito, ne aveva sentito parlare così tanto. Ma poi non ha saputo resistere dall’impartigli, dal vivo, una lezione d’istrionismo, di potere collocandolo nella cornice scenica più crudelmente anti-belusconiana che si potesse immaginare: una finta tenda con veri tappeti, teli militari, odore selvaggi di dromedari, Berlusconi, di solito così precisino, in un bagno di sudore. 

A quel punto, davanti ai fotografi, gli ha piazzato in mano un moschetto, italiano. E quando il presidente italiano, cautamente, ha cominciato ad accennargli la questione dei crediti che le aziende italiane reclamano da anni, ecco, senza proferire verbo il Colonnello si è tirato su una manica indicandogli una cicatrice a suo dire causatagli, da bambino, da un ordigno, naturalmente italiano.

Gheddafi è fatto così. Anche stavolta dopo tutto è una questione di fiducia, e quindi di soldi; di embargo da rompere con l’impegno giudicato evidentemente troppo scarso; e perciò di armi di cui la Libia ha sempre un gran bisogno. I profughi disperati che arrivano a Lampedusa c’entrano e non c’entrano. O meglio, ce li ha entrare lui, ma implicitamente. Comunque gli sbarchi partono dalle sue coste e parlano da soli. C’è un patto con l’Italia. O meglio ci sarebbe, ma è segreto. Il Colonnello non ne parla. Però l’altro giorno, guarda caso, ha riaperto la vecchia questione dei risarcimenti per il colonialismo. Un “evergreen” della rivendicazione. Gheddafi ha sempre qualcosa da recriminare. L’accusa all’Italia è di non aver fornito indicazioni adeguate sulla sorte dei libici deportati in Italia durante il periodo coloniale. Ma in fondo, sulla base dell’esperienza, è già molto che non abbia rivendicato l’annessione della Libia alle Tremiti, come pure rivendicò nel 1992, dato che i suoi patrioti furono per l’appunto confinati dal regime fascista in quelle isole.

Il personaggio, del resto, è prodigo di provocazioni e minacce. “Sinistro pagliaccio”, lo definì a suo tempo Montanelli, che oltre all’abbigliamento militare beduineggiante rivisto da qualche stilista italiano, non ha mai smesso di biasimare la linea tutta “inchini, vaselina e altra guancia” messa in pratica dai governi di Roma. In passato, sempre in polemica con i “porci colonialisti”, il leader della Jamahiriya ha rivelato di tenere sotto tiro Napoli. Per la verità, nel 1986 due missili partirono su Lampedusa. Ma anche su quest’unico episodio bellico c’è da registrare qualche incertezza, una specie di giallo dietrologico secondo cui il missile era uno solo, e anzi forse nemmeno quello.

Vai a sapere. Come su Ustica, vai a sapere. O su un certo Mig libico caduto sulla Sila, su un eventuale addestramento dei terroristi rossi, su un supposto finanziamento agli indipendentisti siciliani e perfino sulla strage di Bologna. Fatto sta che Tripoli e Bengasi sono da sempre il più frequentato parco-giochi per gli spioni italiani, e non solo. Giochi complicatissimi, in ogni caso, ai confini tra l’operetta e la strategia geo-politica, il furto con destrezza e i grandi traffici. Negli anni ’70, per dire, proprio investigando su ipotetici quattrini dispensati dai libici a un improbabile Nuovo Partito Popolare si scoprì grazie al famigerato dossier “M.Fo.Biali” (dove l’ultima sigla era in realtà l’anagramma di Libia) – ecco, si scoprì che il comandante generale della Guardia di Finanza faceva il contrabbando di petrolio, via Malta per giunta. Più o meno allo stesso modo, nel 1980, sempre in Libia l’allora “deus ex machina” del Sismi Francesco Pazienza riuscì a farsi bello con la futura amministrazione Reagan incastrando in piena campagna elettorale il fratello di Jimmy Carter, Billy, donde “Billygate”, che faceva affari con gli uomini del Colonnello, allora piuttosto malvisto a Washington.

In realtà gli affari con Tripoli sono per tutti un peccatuccio meno che veniale. E per gli italiani, forse nemmeno un peccatuccio. Esiste infatti una simmetria di relazioni, per certi versi addirittura consolatoria. Eccola: così come i vari governanti di Roma hanno sempre avuto l’esecrabile necessità di affidarsi a Gheddafi, allo stesso modo, ieri come oggi, il leader libico continua ad avere il maledetto bisogno di rimettersi all’Italia.

È sempre stata una questione principalmente economica: petrolio da vendere, merci da acquistare, materiale libico compreso. L’Italia ha sempre distinto tra gli aspetti diplomatici e le esigenze commerciali. Classica linea del «doppio binario», confermata nelle sue memorie dall’ammiraglio Fulvio Martini, a lungo responsabile del Sismi: «E molto spesso ciò che avveniva su uno dei due binari – spiegava l’ammiraglio – era del tutto sconosciuto all’altro». Ma oggi, evidentemente, questo non basta più. Per Gheddafi si tratta di rompere l’isolamento, aggirare l’embargo, rientrare nel consesso della grande politica. Altro che i risarcimenti. Se oltretutto il deprecatissimo colonialismo fascista è andato avanti per 32 anni, la burrascosa amicizia con la Repubblica democratica dura ormai da 34 anni.

Nell’avvenuto sorpasso devono avere il loro peso anche risvolti, per così dire, umani. Che Gheddafi possa ritenersi grato all’Italia no, questo non si può dire. E tuttavia, poco dopo aver preso il potere, tra il 1970 e il 1971 furono proprio i servizi segreti italiani a salvargli il trono e probabilmente anche la vita, sventando un colpo di Stato (il «piano Hilton») ordito da mercenari europei con la complicità di esuli libici. E’ perfino plausibile che dietro il più roboante anti-colonialismo di facciata il Colonnello coltivi una qualche simpatia per la penisola che gli sta di fronte, e anche per i suoi abitanti. Sotto la sua tenda, nel corso dei decenni, è finita la gente più varia: da Licio Gelli alla mamma di Sgarbi, dallo chef Antonello Colonna a Don Benzi, passando per Adriano Sofri, capitato lì con una delegazione di verdi europei, al quale si deve la fantastica descrizione del padrone di casa che, notato uno scarafaggio precedere sulla sabbia verso di lui, si tolse lo zoccolo e senza nemmeno degnare di uno sguardo l’animaletto l’afferrò per le dita d un piede per scagliarlo ecologicamente via, «dove potè tornare a insabbiarsi».

Lo stesso figlio di Gheddafi, l’ingegnere e calciatore Al Saadi, risulta da tempo in prestito al Perugia, presso il «circo Gaucci» . L’Italia resta un po’ l’America dei libici che contano. Altri due figli, Moutassem e Hannibal, vengono qui a passare le loro avventurose vacanze fra yacht e modelle, paparazzi e scazzottate. Un quarto «gheddafino», l’intellettuale di casa, Saif El Siam, ha tenuto una lezione all’università di Roma ed esposto i suoi quadri (titolo della mostra: «Il deserto non è silente») a Castel Sant’Angelo.

Non c’è ovviamente solo questo. In Italia Gheddafi ha comprato case, aziende, radio e televisioni. Ha fatto spot sulle reti Fininvest, organizzato campagne e pellegrinaggi sulle tombe degli esuli. A un certo punto si è messo a distribuire migliaia e migliaia di audio e videocassette recanti l’esibizione integrale del suo «Libro Verde». Come si sarà capito, l’uomo non difetta di fantasia. Pochi altri, anzi, sanno costruire lo spettacolo politico come «il Fidel Castro del Mediterraneo». In qualche modo si deve a lui il «format» della crociera propagandistica, con rumorosa sosta nel porto di Napoli, 12 anni prima della nave berlusconiana «Azzurra». L’impressione è che il Colonnello si consideri un elemento stabile del paesaggio politico italiano, sia pure con intenzioni di sfida ed effetti un po’ stravaganti. E in effetti, nell’ultimo decennio, si è autocandidato al Quirinale, ha offerto di salvare Venezia, si è proposto di pagare gli avvocati ad Andreotti e di acquistare le quote latte per far cessare le proteste degli allevatori. Ma nella recente storia non solo economica d’Italia la Libia ha avuto un ruolo considerevole: basti pensare alla Fiat. Un ruolo che oggi è dentro un passaggio cruciale. E più che fidarsi o non fidarsi, ancora una volta, il dilemma è per quale politica.    

 

 

 

 

 

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