Gheddafi usa gli immigrati per ricattarci
di Giulio SpadaDel 23 ottobre 2003 da Libero
ROMA - Il colonnello è stato chiaro come non mai: con l'Italia adotto la politica del bastone e della carota. E adesso è il tempo del bastone. Appena due settimane fa, in occasione di un pubblico discorso, Muhammar Gheddafi, il leader, come ama farsi definire in Libia, è tornato ad avere toni acidi nei confronti dell'Italia, come non li aveva da una decina di anni. "L'Italia perderà i suoi interessi in Libia se continuerà ad ignorare gli accordi già siglati sugli indennizzi", ha tuonato, per poi aggiungere, "dovete risarcire 32 anni di dominio coloniale". Se queste sono le parole, riprese da tutte le agenzie di stampa, compresa la Jana, quella del regime libico, i fatti sono nella ripresa delle partenze delle carrette della morte, cariche di clandestini mandati a sbarcare sulle coste dell'Italia. Come non legare in un filo logico le minacce del colonnello e la tragedia di Lampedusa. Il ministro degli Esteri Frattini, di fronte a quelle parole, si affrettò a minimizzare, ma i fatti, evidentemente, gli hanno dato torto. Per capire cosa stia davvero accadendo in queste ore occorre mettere le mani nella paludosa melassa dei rapporti Italia-Libia. Dalle coste libiche, negli ultimi due anni, sono partiti il 75% delle imbarcazioni cariche di disperati clandestini diretti verso le coste italiane. Lo ha ammesso lo stesso ministro Pisanu intervenendo alla Camera lo scorso 24 giugno. Quella dell'incapacità della Libia di far fronte, da sola, ai flussi migratori illegali, è una favola. La Libia è un regime, ampiamente militarizzato, con una forza armata di gran lunga sovradimensionata rispetto alle sue necessità e per alimentare la quale sono stati spesi i ricchi proventi del petrolio. Oltre mezzo milione di uomini e donne in armi (compresa la milizia rivoluzionaria) a fronte di una popolazione di meno di sette milioni di abitanti. Il colonnello dispone di radar, di aerei e soprattutto di una polizia segreta di regime, basata sui comitati popolari radicati anche nel più piccolo villaggio, alla quale non sfuggirebbe certo l'imbarco di una carretta di immigrati.
E allora, quale la verità ? Quando nel luglio scorso il ministro Pisanu si recò a Tripoli per concludere l'accordo sull'immigrazione clandestina fece un ragionamento alquanto lineare: "Se il problema è tecnico-militare vi offriamo i nostri soldati per pattugliare le vostre coste". Tripoli rispose con un secco no, e non solo per motivi di orgoglio patriottico. Rilanciò con una richiesta precisa: adoperatevi affinché venga rimosso subito l'embargo alle forniture militari nei confronti della Libia. Ecco il punto cruciale, di cui nessuno fra i politici italiani parla, o per ignoranza o per comodità. Il colonnello Gheddafi, consunto politico al potere dal 1969, sta muovendo le pedine di un'astuta partita a scacchi e punta solo alla caduta dell'embargo sulle armi. Al leader della Al Jamahiriya (la bizzarra formula adottata dai libici, letteralmente governo delle masse) non interessano certo i fuoristrada, qualche motovedetta ed elicotteri che potrebbe già facilmente avere, bensì rivitalizzare l'apparato tecnologico dei suoi armamenti, caduti in degrado dopo la fine dell'Urss. Quelle armi, aerei, carrarmati, sistemi d'intercettazione, missili, che possono continuare a fargli esercitare il ruolo di potenza nella regione e in tutta l'Africa, dove la Libia ha già combattuto una dozzina di guerre. E non basta, secondo Israele, a Gheddafi mancano pochi elementi per avviare un programma atomico. In questa strategia, l'Italia e il Cavaliere, con i buoni rapporti con Bush, sono la leva da attivare per ottenere la fine dell'embargo.
Altrimenti non si spiegherebbero i nuovi irrigidimenti. Appena un anno fa, il 28 ottobre, Berlusconi si recò in Libia per incontrare personalmente il colonnello. Sembrava che tutte le incomprensioni del passato fossero superate, il premier italiano dovette sottoporsi al rito della visita alla tenda nella caserma di Bab el Azizia (dove Gheddafi afferma di vivere in ossequi alle sue origini di beduino), promise solennemente la realizzazione, a spese dell'Italia, di una grande strada di collegamento fra il nord e il sud per un costo di 60 milioni di Euro e di un ospedale specialistico, ottenne l'impegno, in verità un po' generico, per il risarcimento dei beni sottratti agli italiani cacciati in malo modo nel 1970.
Ora, tutto sembra essere tornato al passato, con i toni e le violenze verbali di sempre. Ogni anno, il 26 ottobre, la Libia del colonnello Gheddafi celebra il medesimo rito. Per un giorno intero a questo paese di meno di sette milioni di abitanti viene imposto il lutto nazionale. Uffici pubblici e attività private vengono rigorosamente sospese, bloccati i trasporti, ridotto al minimo anche il trasporto privato. Inoltre tutte le comunicazioni telefoniche per la Libia, in partenza e in arrivo, sono fuori uso. Se provi a fare una telefonata internazionale risponde un disco che spiega che la Libia è a lutto per ricordare i propri martiri. Il colonnello la definisce la giornata della memoria nazionale, per non dimenticare il "criminale" colonialismo italiano. A ben vedere sembra più una giornata del rancore, fatto un po' a scopi di consenso politico interno, un po' per alimentare quel rapporto di amore odio che segna i rapporti con l'Italia. Il nostro paese resta il primo partner commerciale della Libia (14.300 di lire di scambio nel 2002). Il grosso degli scambi è costituito dall'importazione del greggio libico da parte dell'Italia, dove la Libia copre da sola il 30% del fabbisogno italiano, mentre un quarto delle importazioni libiche proviene dal nostro Paese.
Inoltre, l'Italia costituisce il ponte della Libia per ritrovare relazioni internazionali "normali", a cominciare dai rapporti con l'Unione Europea e l'ingresso nel Wto, l'organizzazione del commercio mondiale. A Gheddafi, evidentemente, non basta quello che l'Italia gli stava garantendo e gioca al rialzo. Vuole la fine dell'embargo militare e tiene l'Italia sotto ricatto.