Mea culpa sulla quarta sponda
di Antonio AiròDel 12 giugno 2003 da Avvenire
«I fatti parlano da sé». Lo scrive il gesuita Giacomo Martina, storico delle vicende italiane, a conclusione di una lettera al mensile Jesus nella quale si sofferma sulla recente voce «Rodolfo Graziani» redatta da Angelo Del Boca per il Dizionario Biografico degli Italiani. Anche questo testo conferma - a giudizio di padre Martina - che «il colonialismo italiano, che destò allora grandi entusiasmi, storicamente non ha avuto gli effetti positivi declamati, e non ha evitato gli aspetti negativi più volte criticati di altri colonialismi».
Per decenni, dalla seconda metà dell'800 fino agli anni '40, l'avventura coloniale italiana in Africa (e nelle isole del Dodecanneso) con i nostri insediamenti dapprima in Eritrea, poi in Somalia, Libia e quindi in Etiopia, con la proclamazione dell'Impero da parte di Mussolini, era sostenuta dalla gran parte dell'opinione pubblica italiana per la quale l'obiettivo della «quarta sponda», al di là dei nostri confini, veniva visto non tanto come sopraffazione e dominio di un popolo su altri popoli (come invece era ritenuto il colonialismo inglese o francese) ma piuttosto come impegno di civilizzazione di genti che fin allora avevano vissuto in una condizione pressoché servile. Per il nostro Paese quindi l'Oltremare fu avvertito, anche nei momenti più tragici, quale quello segnato dalla sconfitta di Adua nel 1896, come la «grande» occasione da non perdere. Vantaggiosa per noi, ma anche per le popolazioni che avrebbero collaborato di buon grado con i nostri coloni.
Questo spiega anche il grande consenso popolare che accompagnò la conquista dell'Etiopia fatta dal regime fascista. Non solo migliaia di soldati, ma anche migliaia di coloni con le loro famiglie si aggiunsero a quanti già risiedevano negli altri possedimenti italiani. E la guerra con l'Abissinia, tra la fine del 1935 e la primavera del 1936, con la vittoria delle nostre truppe e la conquista di Addis Abeba, sembrò dare ragione a quanti sostenevano ed esaltavano la missione civilizzatrice del nostro Paese in terra d'Africa. Gli studi più recenti hanno dimostrato che, se la nostra colonializzazione non assunse le forme più crudeli di genocidio, di rapina delle ricchezze dei Paesi occupati, di discriminazione culturale e razziale proprie di altre potenze (con la conseguente decolonializzazione degli anni 50-60 del secolo scorso), essa - come nota padre Martina nel soffermarsi sulla voce «Graziani» di Del Boca e facendone una succinta biografia - ha avuto non pochi aspetti negativi ed ha pesato non poco nei rapporti tra il nostro Paese e le nostre ex colonie.
Le richieste di risarcimento danni avanzate in passato dalla Libia, l'espulsione dei nostri coloni dai vari Paesi riflettono una realtà che ben poco ha a che fare con la missione civilizzatrice che spesso e volentieri è stata cucita addosso alla nostra avventura africana. Soprattutto la guerra etiopica, al di là delle atrocità che, da una parte o dall'altra dei contendenti, accompagnano ogni conflitto, vide il ricorso da parte delle nostre truppe ad armi chimiche, a gas asfissianti, ad esecuzioni e deportazioni di massa. E fu soprattutto il maresciallo Graziani - specie dopo l'attentato che lo ferì gravemente - il maggiore responsabile delle stragi che seguirono all'attentato stesso.
Per anni una certa pubblicistica, (della quale si fece interprete lo stesso Montanelli, che era stato inviato in Etiopia) e una certa storiografia, cercarono di nascondere questa drammatica verità che metteva in cattiva luce il nostro colonialismo (e sarà ancora Del Boca a produrre le prove del ricorso ai gas asfissianti).
Ma a confermare questo inaccettabile colonialismo ci sono anche non pochi diari di italiani che vissero la vicenda etiopica. Leggiamo uno di questi. Chiama in causa senza citarlo Mussolini. «Ha ordinato a Badoglio e a Graziani di fucilare anche chi si è sottomesso; ha fatto usare i gas lacrimogeni, le bombe incendiarie... I negri dicevano "tutti morillo, morillo pecora, morillo capra, morillo ogni tipo di essere viventi"».