Il Colonnello tra affari e politica.
Gheddafi, una strategia per togliere l’embargo

di Igor Man

Del 25 giugno 2003 da La Stampa

E’ «con sdegno» che la Libia reagisce alle «insinuazioni». Le quali, insinuazioni», sono le accuse, neanche larvate, che da più parti si levano contro una (pretesa) operazione, «fondata sul ricatto», vol­ta a screditare, se non addirit­tura a destabilizzare, il governo italiano, «fomentando una vera e propria invasione di clandestini nelle prossime settimane».

Vediamo. Che le «biglietterie» dove i disperati d'Africa acquistano il passaggio su di una carretta del mare siano state localizzate in territorio libico è un fatto che nemmeno Tripoli contesta. Ma «è falso» che la leadership libica favori­sca quel turpe business. Gheddafi che già proclamò di aver voltato le spalle al Mediterraneo, all'Occidente, per volger­lo verso «il cuore del mondo», verso l'Africa, cioè, in verità non ha mai smesso di coltivare verso l'Europa (e l'Italia in particolare) un rapporto di amore-odio. Attraverso gli gnomi della Lafico, discreti e fattuali, fu in Fiat, come sap­piamo, e ci volle tutta una sapiente opera di persuasione (che all'epoca chi scrive seguì da presso) per convincerlo a «uscire» intascando, oltretut­to, un bel gruzzolo di hard currency. Ma al Colonnello non interessavano i dollari: essere azionista della Fiat per lui era come sentirsi partecipe dell'economia italiana - e quindi occidentale -; quel­l'asettico legame finanziario gli levava di dosso la «vernice del baluba» dandogli (egli pen­sava) l'opportunità di entrare «prima o poi» nel salotto buono occidentale dove politica e affari si coniugano brillantemente.

E' vero, dicono i libici, chi ci sono le «biglietterie» (qualcuno vuole che a farle sorgere abbiano contribuito i famosi Comitati Popolari che non finiscono mai di dar grattacapi a al-Qaid, la Guida: cioè Gheddafi). E' vero che i disperati d'Africa affluiscono in Libia da dove, via Italia, sperano, sognano di arrivare in Germa­nia, ma le autorità libiche sono nell'impossibilità tecnica di controllare millecinquecento chilometri di confini «in fatto teorici» perché segnati sulla sabbia, giustappunto. La Jamairia libica, dicono a Tripo­li, non da ieri ha «esplicitato all'Italia, paese amico, la fer­ma volontà di cooperare per una regolamentazione dei flus­si migratori» ma ne viene impedita per «acclarata impos­sibilità tecnico-operativa». Il che tradotto dal burocratese in italiano semplice vuol dire: siamo pronti a firmare con Roma gli stessi accordi per regolare il flusso degli immi­grati che l'Italia ha concluso con il Marocco, con Malta, con lo Sri Lanka. Pragmaticamente l'Italia ha «avviato un dialo­go informale» con Tripoli, gra­zie all'impegno del ministro degli Esteri, Frattini, e di quel­lo dell’interno  Pisanu, opportunamente lodato dal Presidente Ciampi. Tuttavia il nostro governo ha le mani legate, come suol dirsi. La Libia, infat­ti, avrebbe bisogno per control­lare e successivamente fermare la massa dei disperati d'Africa, di «mezzi idonei»: vale a dire motovedette, aerei, visori. Ma è sotto embargo e dunque non può acquistare «strumenti militari». «Non è il momento», han fatto sapere gli Stati Uniti e poiché, America can, come diceva Sadat, ora come ora libici e italiani si vedono costretti al palo.

Va aggiunto che qualche forza politica accusa la Libia di voler esercitare un ricatto bell'e buono: «O ci date i mezzi o non muoveremo un dito: e buon pro vi facciano i clande­stini». L'accusa di esercitare un «ricatto» è invero pesante, non dimostrabile, e manda in bestia i libici. Anche alla Farne­sina (cui va dato atto d'un lavoro paziente teso a trovare, in consonanza con quel galan­tuomo realista di Pisanu, una via d'uscita magari provviso­ria) non vogliono sentir parla­re di «ricatto» libico. «Sulla lotta alla immigrazione clande­stina la Libia ha una posizione negoziale chiara: ci dice d'es­ser disponibile ma chiede d'es­ser messa in grado di operare costruttivamente: i libici han­no 1500 chilometri di confine nel deserto che si impegnano a controllare solo se saranno in parte vendute e in parte donate loro attrezzature adat­te (...). Allo scopo di verificare le esigenze effettive è appena partita alla volta di Tripoli una delegazione tecnica euro­pea». Questo, in sostanza, di­ce il nostro giovane ministro degli Esteri.

Va detto, infine, che le buo­ne intenzioni di Gheddafi po­trebbero risentire negativa­mente dalla tellurica situazio­ne del Maghreb. In Algeria, paese amico bello e triste, non è che quel governo, nonostan­te gli sforzi generosi di Bouteflicka marci tranquillo. Il ter­rorismo islamista sembra at­tualmente in sonno ma è da temere che sia un sonno assai leggero. In Marocco gli sforzi del giovine sovrano per contra­stare il «risveglio dell'islam radicale» trovano ostacoli quo­tidiani, sempre più difficili da rimuovere. La Tunisia, infine: il presidente Ben Ali - un soldato duro cresciuto alla scuola implacabile dei Servizi - è riuscito, senza ovviamente gravarsi di scrupoli, a tenere «sotto controllo» i fondamenta­listi. Ma il presidente sembra che abbia seri problemi di salute sicché laggiù, in quel paese adorabile cui siamo mol­to legati, sarebbe in corso un sotterraneo regolamento di conti mentre i terroristi islami­ci si vuole stiano contandosi.

Sempre più l'area geopoliti­ca che potremmo chiamare africo-mediterranea,   corri­sponde alla famosa definizio­ne di Mairaux: «un minestro­ne ribollente». Se salta il coper­chio, saranno guai per tutti. Non soltanto in estate. Per evitare che salti, non ci voglio­no le cannoniere: soltanto un po' di buonsenso, nel segno d'un onesto pragmatismo.

 

 

 

 

 

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