VIAGGIO NELLA CITTA’ LIBICA DA CUI PARTONO GLI EXTRACOMUNITARI DIRETTI IN ITALIA

Del 10 agosto 2004 da La Stampa

Il fuoristrada Toyota delle forze di «sicurezza generale» rallenta e si ferma. Sulla strada litoranea che porta al confine con la Tunisia, a una trentina di chilometri dal centro di Tripoli, un muro di mattoni nasconde una città invisibile, che non dovrebbe esistere ufficialmente, che è zona off limits anche per i libici. All'ingresso di questa città vi sono alcuni taxi in attesa. Per varcare con l’auto il suo confine si deve pagare. Appena entrati si apre uno slargo, che dà l'idea di una piazza: tanti negozi vendono di tutto. E’ un grande bazar, un mercato colorato. E poi, abbozzate, delle stradine, con ai lati tante case-capanna, catapecchie che stanno in piedi non si sa come. E' una città - dicono - di circa cinquecento invisibili. Vengono soprattutto dal Sudan e dichiarano di essere «commercianti pendolari». Di queste città fantasma in Libia ve ne sono diverse: nuove Soweto sudafricane, bidonville sudamericane, ghetti di neri dove la vita ha i suoi ritmi, codici, leggi. Nel deserto, nel sud del Paese, come nella caotica costa dell'area metropolitana della capitale, questo è un mondo a parte che preoccupa le autorità libiche: «Sono portatori di malattie infettive, hanno introdotto la droga nel nostro Paese - spiegano i vertici delle forze di polizia -, sono organizzati in bande criminali, uccidono. I nigeriani e i ghanesi praticano la magia nera...». Zuwuarah è a un centinaio di chilometri più a ovest. A Tripoli l’avevano raccontata come la località di mare dove «si pesca e si mangia il pesce migliore». Per la Libia del «leader», di Muhammed Gheddafi, è una città cara: «Da Zwuarah ebbe inizio - racconta un funzionario governativo - la nostra “rivoluzione culturale”, nel 1972». Oggi è il porto di imbarco dei disperati - «clandestini extracomunitari» per noi europei, «stranieri irregolari, illegali» per i libici - che sfidano la sorte, che attraversano il Mediterraneo pensando di arrivare a Bengodi, nel paese dei sogni, l'Italia, Eldorado per africani e arabi. Ma il loro sogno svanisce alla vista di Lampedusa, quando vengono intercettati dalle nostre forze di polizia che, poi, li trasferiscono nei Centri temporanei di permanenza, prima di rimpatriarli. Ma adesso la speranza svanisce anche prima, perché pure i libici tentano di bloccarli, di fermarli per rimpatriarli. E spesso ci riescono: «In un anno - spiegano i vertici del Dipartimento immigrazione e delle forze di polizia -ne abbiamo bloccati sedicimila e arrestati un’ottantina: trafficanti libici, algerini, tunisini ed egiziani». Zuwarah si presenta un po’ come Mazara del Vallo, nel senso che ha una sua flotta di pescherecci, è un po’ come Gela, per il suo disordine urbanistico. Parlare di abusivismo edilizio non ha senso, colpiscono, però, le decine di scheletri di palazzine in cemento armato, le case abbandonate, i bordi delle strade impolverate che sono impasti di sabbia, pietre e rifiuti di ogni genere. Le banchine del porto sono occupate da decine di pescherecci. All'estremità del molo, la zona delle forze di polizia. Un ufficiale si improvvisa Cicerone: «Le barche tunisine - premette - si distinguono dalle nostre perché hanno la cabina». Ormeggiati accostati l'uno all'altro, tre barconi sequestrati: «Li abbiamo bloccati con a bordo marocchini, tunisini ed egiziani. Su ogni barca - racconta il militare - ne abbiamo contati una sessantina. C’erano anche donne e bambini». Tirati a terra, di barconi, pescherecci e lance di tutte le dimensioni, ne abbiamo contati una quindicina. Malridotti, arruginiti, con i bordi che si sfarinano per il legno divorato dal tempo e dalla salsedine, ogni peschereccio sequestrato ha una sua storia: «Quello - indica l’ufficiale - ne aveva a bordo 155. Lo ricordo benissimo. Lo chieda all’ufficiale di collegamento italiano che quel giorno si trovava qui, a Zuwarah». Da qui sono partiti anche i settantadue disperati di Siracusa. Ma da dove si imbarcano i clandestini, chi organizza il traffico? Le indagini raccontano frammenti di una trama composta da più segmenti. Intanto l'inizio del viaggio che li porterà a Zwuarah: «Partono dai loro Paesi consegnando ai trafficanti la metà del costo del biglietto, il resto lo faranno avere, una volta arrivati a destinazione, comunicandolo ai loro parenti». Non è l'unica modalità di pagamento. Spiega un investigatore: «Molti si fermano in Libia, per diversi mesi, anche per uno o due anni. Lavorano per mettere da parte i soldi necessari per mbarcarsi». I marocchini, algerini e tunisini entrano dalle frontiere a ovest, gli egiziani da quelle a est, gli africani e i sudanesi dal deserto. «Arrivano a Zuwarah portati in auto - spiegano i libici - e naturalmente il prezzo del biglietto varia in funzione della località di partenza. Il ventaglio delle offerte per il viaggio va dai mille ai 1800 dollari». Una volta a Zuwarah aspettano di partire anche settimane, mesi, prima che si formi l'equipaggio del peschereccio, della lancia, del gommone che li porterà a Lampedusa, nascosti nelle case abbandonate (la polizia dichiara di averne chiuse a centinaia). Quando è giunto il momento, vengono trasportati sulla spiaggia, a ovest di Zwuarah, «sull'isolotto di Farwa, di fronte ad Abu Kammash, a una ventina di chilometri dal confine con la Tunisia». Le spiagge della costa sono immensi chilometri di territorio difficilmente controllabile e il mare che separa la Libia da Lampedusa è un oceano sul quale erigere barriere e muraglioni (di motovedette) è pressoché impossibile. Il fuoristrada delle «forze di sicurezza generale» si incammina verso Farwa, che in realtà è un lembo di pietraia e spiaggia che si raggiunge dalla terraferma attraverso un percorso accidentato, in certi punti a fior d'acqua. Una volta a Farwa, uno specchio di mare separa «l'isolotto» da Abu Kammash. La spiaggia che guarda in direzione di Lampedusa (che dista centodieci miglia) è bianchissima, anche se è oscurata da alghe, rametti, rifiuti. E' qui che vengono caricati di notte, su piccole barche, i «viaggiatori», che poi a largo verranno trasbordati su pescherecci più grandi, «la maggior parte dei quali rubati o comprati in Tunisia». I responsabili delle forze di polizia raccontano di aver imposto ai pescherecci libici di rientrare in porto entro ventiquattr'ore, superate le quali scattano le ricerche: «Una barca che mancava all'appello l'abbiamo bloccata con sessanta clandestini». Il fuoristrada si dirige in direzione della Tunisia. Superata Abu Kammash c'è un posto di blocco fisso, con tanto di garritta e di sbarra. Vengono controllati camion e auto («i tunisini vengono in Libia a comprare merci, anche benzina, che poi contrabbandono nel loro paese», spiega un poliziotto), In quello che doveva essere stato un container sono trattenuti, e guardati a vista, undici ragazzi. Non hanno nemmeno vent'anni e già sembrano vecchi. Uno di loro ha la pelle del viso piagata dal sole. Un altro, un nero, è sdraiato a terra, nella polvere, e vomita. Sono stati bloccati in nottata mentre guadavano quello specchio di mare che separa la terraferma da Farwa. Nel gruppo di clandestini marocchini ed egiziani ci sono tre neri: un ghanese, un nigeriano e uno che sostiene di essere «palestinese», di arrivare dalla «Giordania»ma che probabilmente è nigeriano. «Veniamo da Misurata (la città ad est di Tripoli, ndr), siamo in Libia da un mese. Abbiamo pagato mille dollari per andare in Italia». Mille dollari? Li vedi sono scalzi, mal vestiti, senza nulla. Come è possibile che abbiano pagato mille dollari? Hanno lavorato in Libia per procurarseli? Qui, un buono stipendio è di quattrocento dinari, l'equivalente di duecentocinquanta euro circa. Che lavori hanno fatto e per quanto tempo? Domande senza risposte, dubbi che non vengono sciolti. Per questi ragazzi, il futuro ravvicinato è il trasferimento nel nuovo Centro di accoglienza per clandestini di Tripoli. Dove resteranno in attesa del riconoscimento della nazionalità e di imbarcarsi, quelli che arrivano da Paesi lontani, su un volo charter (pagato dall'Italia) che li riporterà indietro.

 

 

 

 

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