Le aperture di Tripoli e i dubbi delle imprese italiane
di Ruggiero CaponeDel 30 settembre 2004 da L' Opinione
A revoca dell’embargo alla Libia apre una nuova stagione economica per il paese di Muammar Gheddafi, e ben 360 aziende libiche sono già pronte per essere privatizzate. “Una opportunità per l’imprenditoria italiana” caldeggiata dallo stesso ministro alle Attività produttive (con delega al Commercio estero), Adolfo Urso.
“Una buona notizia che ci permette di migliorare e rendere più efficiente il contrasto all’immigrazione clandestina - fa notare Urso - ed aprire contemporaneamente una nuova stagione economica con la Libia di cui l’Italia è già primo partner commerciale”.
Il Vice Ministro lo scorso fine settimana è stato a Tripoli, per guidare una missione commerciale, composta da 213 imprenditori che partecipano ad Expo Italia, una fra le più importanti manifestazioni fieristiche libiche. “Il governo italiano ed il Ministro degli Interni, Pisanu, in particolare - ha sottolineato il vice ministro - hanno fatto bene a chiedere di accelerare la fine dell’embargo e, sicuramente, le missioni del Presidente Berlusconi a Tripoli hanno aiutato a migliorare sensibilmente il clima politico verso il Paese africano”.
Grande opportunità commerciale che, secondo gli esperti italiani del Commercio estero, andrebbe colta occupando ogni postazione libica, e prima che la stessa idea possano averla tedeschi, francesi ed inglesi. Il dicastero avrebbe anche invitato ad investire alcuni storici imprenditori italiani che, oltre 20 anni fa, abbandonarono la Libia poiché indesiderati dal regime di Gheddafi. La cosa ha scatenato non poche polemiche, ed in molti si chiedono se in questo rinnovato clima di collaborazione ci sia spazio per sanare l’annoso contenzioso italo-libico. Vale a dire i 6 milioni di euro che avanzano le imprese italiane dalla Libia, e per aver consegnato merci ed opere senza mai ricevere una lire dell’epoca dal regime di Gheddafi.
“Ora che l’America e l’Unione europea hanno giustamente revocato l’embargo nei confronti della Libia - spiega Riccardo Pedrizzi (senatore di An e presidente della commissione Finanze e Tesoro di Palazzo Madama) - è stato ottenuto un risultato importante, grazie all’impegno del governo italiano che, fra l’altro, consentirà al nostro Paese di contrastare più efficacemente l’immigrazione clandestina. Ma è anche tempo che venga definitivamente risolto l’annoso problema degli indennizzi ai cittadini italiani che hanno perduto i loro beni all’estero e, in particolare, la questione relativa alle rivendicazioni, patrimoniali e non, dei nostri connazionali espulsi dalla Libia nel 1970, previa confisca dei loro beni.
Una soluzione - sottolinea Pedrizzi - da trovare già all’interno della legge finanziaria”. Pedrizzi in merito ha presentato da tempo anche un disegno di legge. In sostanza, per l’esponente di An “bisognerebbe prevedere che, ai cittadini italiani o enti o società di nazionalità italiana rimpatriati dalla Libia, per i quali la legge 1066/71, prima, e 16/80, 135/85 e 98/94, successivamente, hanno previsto la concessione di anticipazioni per beni, diritti e interessi perduti ad opera di provvedimenti emanati dalle autorità libiche a partire dal gennaio 1969, - sostiene il senatore - venga corrisposto un ulteriore indennizzo, sulla base di un ulteriore coefficiente di rivalutazione”.
“Al di là di ogni valutazione sulle azioni od omissioni di politica estera italiana nei confronti della Libia, - spiega Pedrizzi - vi è un obbligo sostitutivo, pieno e ineludibile, del governo italiano di risarcire in misura integrale e comprensiva del valore degli avviamenti commerciali, degli interessi e della svalutazione monetaria, quei beni, diritti e interessi perduti dalla comunità italiana presente in Libia e poi espulsa con la forza. In questa direzione si sono avuti - continua l’esponente di An - diversi provvedimenti normativi italiani a beneficio dei cittadini rimpatriati dalla Libia. Provvedimenti che però - sottolinea - risultano del tutto insufficienti: si tratta di porre rimedio ad un’ingiustizia”.
Ma il contenzioso in materia di risarcimenti libici alle imprese italiane ha già da mesi imboccato la via giudiziaria: infatti tocca allo stato italiano indennizzare le aziende truffate oltre 20 anni fa dalla Libia.
Così oltre tre mesi fa l’ufficiale giudiziario s’è recato a Palazzo Chigi, per notificare un atto di diffida e messa in mora al Presidente del Consiglio inviato dall’Airil (Associazione Italiana per i Rapporti Italo-Libici) e da 12 aziende italiane creditrici della Libia per oltre 100 milioni di euro (L’Aemi di Modena, la Bertinetti Industrial Group di Torino, la Boldrin e la Selexport di Padova, la Lineaflex di Bergamo, la Mediterraneum Joint Venture di Livorno, la Mosa di Ravenna, la SanMarco di Lanciano, la Silmet di Genova, la Pezzullo Industrie Zootecniche di Salerno, la Morino Upam e la Sirman di Napoli) ad essa associate.
Altri due ufficiali giudiziari hanno notificato lo stesso atto al Ministro per l’Economia ed al Ministro degli affari Esteri. La decisione di questa prima azione nei confronti del Governo è scaturita dopo che l’accordo bilaterale, sottoscritto dai massimi esponenti libici ed italiani il 28 ottobre 2002 a Tripoli, che prevedeva il pagamento dei crediti alle imprese italiane entro il 31 marzo 2003, è stato disatteso. E soprattutto perché in data 17 dicembre 2003, in sede di approvazione della legge finanziaria 2004, la Camera dei Deputati, quasi all’unanimità (430 su 443) votava l’ordine del giorno, a firma D’Agrò ed altri, che impegnava il Governo ad emettere un provvedimento che indennizzasse le imprese creditrici della sorta capitale, della rivalutazione monetaria e degli interessi.
Ad oggi nulla è avvenuto, neanche dopo la risoluzione Valdo Spini (votata all’unanimità dalla III Commissione Affari Esteri della Camera nella seduta del 3 marzo 2004). Nel frattempo molte imprese sono fallite, e c’è stata la perdita di migliaia di posti di lavoro. L’indifferenza verso le imprese italiane truffate dalla Libia sembra insormontabile. “Il Governo non ha risposto, né pensavo lo facesse perché non è nello stile di questa Repubblica - commenta laconicamente Leone Massa (presidente Airil) - dove i cittadini sono dei sudditi e non sono degni neanche di un colloquio chiarificatore dei fatti. Eppure sia il Parlamento nazionale (nel dicembre 2003) sia la Commissione esteri (nel marzo 2004) si erano espressi in difesa dei diritti delle imprese creditrici.
Altro esempio, in questa nostra democrazia, della valenza della volontà espressa all’unanimità dal Parlamento, rappresentante del popolo. Aggiungo che il primo settembre, in occasione del 35esimo anniversario della presa del potere, il Colonnello Gheddafi, nel suo discorso, ha detto, come testualmente riportato dall’agenzia svizzera ATS, ‘se l’Italia vuole diventare pulita e girare pagina dell’ingiustizia fatta ai libici, deve riconoscere il risarcimento e compensare il popolo libico che ancora subisce perdite a causa delle mine disseminate sul suolo libico da Italia e Germania’.
Se ben ricordo Berlusconi, al suo rientro da Tripoli il 28 ottobre 2002, - continua Leone Massa - dichiarava alla stampa che con 60 milioni di euro, concordati con la controparte libica e sanciti nell’accordo firmato in presenza di Gheddafi col suo omologo libico, l’Ing.Shaamek, veniva messa una pietra sul passato, e che era stata fissata la data del 31 marzo 2003 per il pagamento dei crediti vantati dalle imprese italiane: quella data non è stata rispettata”.
L’Airil non ha mai nascosto le proprie preoccupazioni, soprattutto molte aziende non esitano a dichiarare che non escludono che Gheddafi possa nuovamente attentare ai patrimoni delle imprese italiane, ecco perché invitano le imprese ad essere più guardinghe con le profferte del ministro Adolfo Urso.
“Dall’incontro di Sirte del febbraio scorso tra Berlusconi e Gheddafi - spiega Massa - la Libia ha rincarato la dose, chiedendo una strada da oltre seimila miliardi delle vecchie lire: a questo punto il cittadino italiano ha tutto il diritto di chiedersi chi abbia ragione, Gheddafi o Berlusconi, e da chi dei due è stato preso per i fondelli. Questo è stato il motivo della nostra richiesta del 7 settembre ai parlamentari di tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, e perché invitassero il Governo a togliere la secretazione all’accordo bilaterale del 28 ottobre 2002. Mi chiedo - conclude l’esponente dell’Airil - che garanzie abbiamo oggi che non si ripeta quello che abbiamo subito in passato?”.