Perché dovrei dialogare con te se di me hai paura?

Del 21 febbreio 2006 da Il Foglio

Dialogare, dialogare, dialogare. D'accordo: non si può portare guerra a un miliardo e trecento milioni di mu­sulmani, non si può cacciare una comunità islamica euro­pea di oltre quindici milioni di persone, queste sono ovvietà. Riflettete però su un punto appena meno ovvio: in politica non si può dialogare senza esercitare una qualche deterrenza, senza disporre di una qualche forza e indi­pendenza, materiale e morale. Ora, da alcune settimane l'occidente è sfidato in campo aperto dall'Islam politico, dall'islamismo profetico e fondamentalista, con la conni­venza debole di oligarchie al tempo stesso ambigue e ri­cattate, e con l'aperta complicità di stati canaglia che la­vorano per prendersi l'arma atomica e per destabilizzare la politica mondiale predicando la cancellazione di Israe­le dalla carta geografica. Questa sfida è fatta di violenza: ambasciate occidentali e chiese cristiane attaccate e mes­se a fuoco, preti uccisi in un clima di persecuzione reli­giosa, prodotti boicottati e ritorsioni di ogni tipo minac­ciate, taglie per la caccia all'uomo e sentenze popolari di condanna contro persone ree di blasfemia e islamofobia, che si aggiungono alla lunga catena di figure pubbliche della scena europea sotto scorta per le idee che professa­no, sotto continua minaccia di morte in nome di una legge coranica chiamata sharia, che volenterosi militanti isla­mici vorrebbero introdurre in Canada o nel Londonistan. Israele ha risposto definendo “terrorista” il governo in formazione di Hamas e attrezzandosi per una stagione che tutto fa prevedere cupa e dolorosa. Gli Stati Uniti, che pure sono la patria del multiculturalismo e considerano peccato grave ogni offesa al sentimento religioso, hanno denuncia­to le responsabilità iraniane e siriane nella ondata di fana­tismo violento, e hanno ritirato i finanziamenti che dovreb­bero andare a organizzazioni in prima linea nella crociata antioccidentale, anticristiana, antigiudaica. E noi europei? Noi siamo afflitti da una triplice dipendenza verso l'area islamica: economico-energetica, politico-diplomatica e cultural-religiosa. La Chiesa parla con opacità dei suoi marti­ri, e alcuni cardinali ci rifilano risibili giaculatorie sulle col­pe dell'occidente. Gli stati si prosternano alle violenze, mo­strano di temerle, rivelano impotenza nel fronteggiarle an­che solo nei canoni della diplomazia: non un ambasciatore è stato ritirato, non un gesto di rigore e di protesta contro le fatwa religiose diffuse via satellite è stato nemmeno tenta­to, siamo prigionieri in casa nostra, ci togliamo giustamen­te le scarpe per andare a inchinarci in moschea, dialoghia­mo con i nostri ambasciatori convertiti all'Islam e divenuti portavoce della casa dei Saud, mettiamo sotto scorta gli in­tellettuali e le personalità in pericolo di vita, consideriamo normale sottoporre a una sorta di sorveglianza del pensie­ro l'espressione libera di opinioni storiche, antropologiche, teologiche o filosofiche in materia di religione. In Italia, l'u­nico che reagisce con dignità è un islamico, Magdi Allam. Perché i fondamentalisti dovrebbero dialogare con noi se noi di loro abbiamo semplicemente paura?

 

 

 

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