Cossiga: Gheddafi è un amico, proteggiamolo dagli estremisti

di Francesco Verderami

Del 22 febbraio 2006 da Corriere della Sera

«Non raccontiamoci storie, rifuggiamo dalle sciocchezze che si sono dette in questi giorni a proposito del ge­sto imprudente e inconsapevole dell'ex ministro Roberto Calderoli. Gli incidenti di Bengasi non sono stati provocati da una maglietta, ma da una precisa strate­gia degli integralisti islamici. Più esattamente dei Fratelli musulmani, che si so­no infiltrati dall'Egitto. C'è un tentativo di destabilizzare la Libia ed è necessario perciò sostenere Gheddafi». Francesco Cossiga conosce il leader libico, «era l'au­tunno del 1998 quando mi fece sapere che voleva parlarmi. La richiesta giunse tramite la World Islamic Cali Society e il figlio architetto di Gheddafi. Allora a pa­lazzo Chigi c'era il governo da me predi­letto, quello di Massimo D'Alema, e Lam­berto Dini era ministro degli Esteri. Loro mi dissero che era importante il mio viag­gio. C'era ancora l'embargo sulla Libia, a causa dell'attentato di Lockerbie dell'88». Quel colloquio è rimasto top secret. «Si disse che ero andato a informarlo del salutare intervento unilaterale nei Balcani, quando alla faccia di Kofi Annan e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, Bill Clinton guidò l'azione per il Kosovo. Si disse che invitai Ghed­dafi a ritirare gli aerei che aveva in Jugo­slavia. Ma non era vero». È vero invece chele chiese di interveni­re presso gli Stati Uniti e l'Inghilterra per garantire la sorte degli attentatori di Lockerbie? «Tutti sapevano dei miei buoni rappor­ti con Washington e Londra. E lui conosceva persino il mio numero di scarpe... Diciamo che, alla fine del colloquio, mi disse: “Sono sicuro che le conosciuta prima”». Prima non vi conoscevate? «No. Ma da allora, siccome lui ha subi­to la frattura del femore e io ho una prote­si all'anca, ci informiamo spesso delle no­stre condizioni di salute. Non sono certo l'unico ad avere con lui ottimi rapporti. A parte Giulio Andreotti, che fu tramite se­greto del riavvicinamento tra la Casa Bianca e la Libia, l'attuale ministro dell'Interno Beppe Pisanu ha familiarità con Gheddafi. Anche lui attraverso la World Islamic Cali Society. Romano Pro­di è suo amico. Quanto a Silvio Berlusco­ni, la sua politica estera lo porta ad ab­bracciare tutti, da Putin a Gheddafi». La schiera degli «amici» è così lunga che forse impiega meno tempo a citare i «nemici». «I radicali lo sono da sempre. Anche quando erano amici del Sud Africa segre­gazionista. E poi i repubblicani e alla fi­ne dell'embargo — eccezione fatta per D'Alema — quasi tutta la sinistra». Perché dopo l'embargo? «Perché videro che Gheddafi instaurò buone relazioni con Usa, Canada e Gran Bretagna. E a sinistra applicano una mio amico, e l'amico del mio nemico è mio nemico. L'Italia deve invece conside­rarlo un amico. Tripoli si batte da sem­pre contro l'integralismo islamico. Ma l'Occidente vive di contraddizioni: sap­piamo che l'estremismo islamico è guida­to dall'Arabia Saudita, considerato Pae­se gli Stati Uniti. Lo sappiamo ma facciamo finta di niente. Ora dovremmo ignorare il ten­tativo degli estremisti islami­ci di incendiare anche la Li­bia?». Dunque concorda con il mi­nistro degli Esteri Gianfran­co Fini, secondo cui dietro le violenze di Bengasi c'è l'inten­zione di destabilizzare Ghed­dafi? «Sì, la rivolta è un segno progetto di destabilizzazione della Libia, che segue la vittoria di Hamas in Palesti­na. Gli estremisti vogliono allargare la lo­ro area d'influenza ed è interesse dei Pae­si occidentali e soprattutto dei Paesi del Mediterraneo, proteggere Gheddafi. Me­glio, siccome si protegge da solo, è inte­resse Se lei ritiene che la maglietta di Calde­roli non c'entri nulla, che senso ha avuto allora farlo dimettere? «Berlusconi ha fatto bene. Un ministro non può lasciarsi andare a certi atteggia­menti. Ma tanto il gesto di Calderoli quanto le vignette danesi non sono la causa dell'emergenza. Chi lo dice compie una bassa operazione cultura­le. Il resto è il segno di una campagna elettorale degrada­ta». A cosa si riferisce? «A quello slogan, “dieci cen­to mille Nassiriya”, che non è incompatibile con il program­ma del centrosinistra». Ma se tutta l'Unione ha stig­matizzato l'accaduto. «Infatti non dico che l'Unio­ne è d'accordo, ma quello slogan riflette in modo esasperato quanto c'è scritto nel programma di Prodi: quan­do si sostiene che i soldati italiani in Iraq sono una forza d'occupazione, e quando due sentenze della magistratura italiana legittimano la strage di Nassiriya come un'azione di resistenti...». Torniamo a Gheddafi. Difendendolo, non si rischia di accettare passivamente azioni come quella di Bengasi? «Il punto è che l'Europa non ha voglia di combattere. E l'Italia purtroppo, sulla stessa falsariga, sta perdendo la propria identità cristiana: noi non difendiamo la nostra identità mentre vogliamo difende­re quella altrui». Per usare le parole del presidente del Senato, Marcello Pera, se decidiamo di genufletterci abbiamo già perso. «Non è detto. Dobbiamo puntare sulla superiorità della nostra cultura. Sempre che ci crediamo...».

 

 

 

 

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