«L'assalto agli italiani è anche colpa di Calderoli».
Il ministro degli Esteri Fini in Senato fa retromarcia sulle responsabilità libiche e attacca il collega di governo

Del 23 febbraio 2006 da La Provincia di Como

ROMA - Il «vero problema è quello dell'integralismo islamico che ha scatenato un'ondata di violenza globale» ma certamente è «verosimile che, senza i motivi offerti dalle affermazioni di Calderoli le manifestazioni di Bengasi difficilmente avrebbero preso di mira obiettivi italiani». In una sede istituzionale come quella del Senato ieri il ministro degli Esteri ha parlato con chiarezza dei gravissimi incidenti di Bengasi che hanno provocato 14 morti - tra cui diversi non libici - e la completa distruzione del consolato italiano in Cirenaica, ridimensionando la tesi secondo la quale molto avrebbero giocato problemi di ordine interno alla Libia piuttosto che la maglietta indossata dal ministro leghista per le Riforme. «Le affermazioni di un ministro non potevano passare inosservate, e infatti non sono passate inosservate», ha spiegato il vicepremier sottolineando come la «reiterazione con intenti apparsi provocatori» di quelle dichiarazioni non ha certamente giovato all'immagine dell'Italia nei Paesi arabi. Le dichiarazioni di Fini hanno però avuto un'immediata eco politica e l'ennesima frattura si è aperta nel fronte del centrodestra, in particolare tra Lega e An. l'ira leghista «Quando ho letto le agenzie di stampa che riportavano e attribuivano a Fini questa frase non ci ho voluto credere - ha detto il ministro Roberto Castelli a Radio Padania - perché mi sembrava impossibile che Fini potesse dire una cosa del genere, nella sede poi più ufficiale possibile, che è la sede in cui un esponente del governo riferisce al Parlamento». «Io credo - ha osservato - che sia assolutamente inaccettabile perché in quella sede, e soprattutto un ministro, riferendosi a un suo collega deve dire le cose suffragate dai fatti: dice quello che è vero oppure nega quello che non è vero, ma che lui esponga una sua opinione di tale gravità ritengo sia assolutamente inaccettabile». «Mi dispiace - ha concluso Castelli - di dover aggiungere in un momento così delicato, a pochi giorni dall'inizio ufficiale della campagna elettorale, un elemento di presa di distanza da un collega di governo, ma credo che la Lega debba fermamente respingere queste accuse che non sono suffragate dai fatti». preoccupati Parole forti, dunque, ma dalla Farnesina emerge la grande preoccupazione per lo stato delle relazioni con la Libia, tanto da spingere Fini a lanciare un messaggio forte al colonnello Gheddafi e all'opinione pubblica libica: l'Italia è pronta a chiudere «definitivamente il capitolo storico del passato coloniale», a mettere una pietra sopra ai fantasmi del passato attraverso «significative misure» da concordare con le autorità di Tripoli. Dopo aver ribadito che le dimissioni del ministro Calderoli erano «un atto dovuto», Gianfranco Fini ha spiegato ai senatori che comunque l'episodio di Bengasi, «pur particolarmente drammatico e sanguinoso», va inserito «nell'ondata di violenza globale che è stata scatenata dall'integralismo islamista». A dare forza a quest'analisi il vicepremier ha citato alcuni fatti specifici come le manifestazioni che ci sono in Pakistan, in Indonesia, in Nigeria. «Fino a quelle nel cuore della stessa Londra dove il 40 per cento della popolazione di fede musulmana dichiara ed auspica l'adozione della Sharia ed il 20 per cento manifesta comprensione per gli attentati alla capitale britannica dello scorso mese di luglio». «non siamo supini» A questo punto una precisazione: «quando il Governo italiano - ha scandito Fini - parla di dialogo non si riferisce ad un esercizio a senso unico, né tantomeno supino». Infatti il rispetto della libertà religiosa «significa rispetto delle libertà di tutte le religioni, ad iniziare da quella cristiana, che non è solo parte delle nostre radici ma è componente insopprimibile della stessa identità dell'Italia e dell'Europa». Quindi l'unica strada rimane quella del «dialogo», soprattutto con i governi dei Paesi arabi moderati anch'essi «vittime» di questo fanatismo.

 

 

 

 

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