Il pragmatismo contro il Colonnello inaffidabile

di Stefano Folli

Del 4 marzo 2006 da Il Sole 24 Ore

Poche ore prima di pronunciare parole minacciose contro l'Italia, di evocare un odio antico e di adombrare nuovi disordini, il colonnello Gheddafi aveva fatto liberare alcune decine di Fratelli Musulmani arrestati dopo l'assalto di Bengasi.Una simmetria quasi perfetta: la messa in libertà degli integralisti e subito dopo l'attacco a Roma. Qual è, se esiste, il nesso tra i due eventi? Tra la mossa a uso interno e quella che il ministro degli Esteri Fini ha giudicato «un'arringa da comizio»? Con ogni probabilità è la debolezza di Gheddafi. La sua condizione di dittatore incalzato e forse circondato dall'integralismo. L'ultimo nazionalista nasseriano che in fondo vive, aggravate, le stesse contraddizioni in cui si agita il vicino Egitto. L'assalto al consolato di Bengasi, ispirato o forse subìto dal regime e poi represso nel sangue, è il punto di rottura di profondi contrasti. E la ripresa dell'offensiva verbale è la prova che tutto è ancora irrisolto a Tripoli. Ne deriva che la Farnesina ha ragione a non drammatizzare la crisi libica. È il momento di mantenere il sangue freddo. All'arringa del colonnello si può solo rispondere guardando ai fatti. E i fatti sono che, con ogni probabilità, il regime non ha né la forza né la volontà di colpire l'Italia, essendo troppo impegnato a proteggersi le spalle sul fronte interno. Del resto, Gheddafi ha trascorso molti anni nel tentativo, alla fine riuscito, di farsi riaccettare dalla comunità internazionale, scrollandosi di dosso la fama (meritata) di terrorista o protettore di terroristi. Sarebbe strano se ora volesse compromettere tutto. Quindi le sue minacce vanno ascoltate e ad esse va data una replica ferma. Ma senza panico. A giudicare dalla reazione di Fini, questa è la strada imboccata dal governo. Con l'idea di voler considerare le uscite di Gheddafi nella loro sostanza, talvolta da decifrare. E allora si comprende che il «passato coloniale» che ritorna a intermittenza è soprattutto un modo per agitare il vessillo nazionalista, in chiave anti italiana, prima che la bandiera integralista islamica conquisti il paese. L'interesse nazionale italiano resta quello di favorire la stabilità della Libia, perché il rovesciamento di Gheddafi oggi avrebbe un solo significato: la vittoria dei fondamentalisti. Un governo integralista a due passi da casa nostra, sulla «quarta sponda», con i rischi connessi per le forniture energetiche. Nasce di qui il richiamo agli accordi bilaterali e agli impegni reciproci. Ossia all'unico modo possibile per chiudere il conto del passato. Ma se la verità della crisi non riguarda l'eredità coloniale, bensì il conflitto tra l'establishment libico e gli estremisti, persino il rispetto di tali impegni sarà insufficiente. Ed ecco perché l'opposizione di centro sinistra attacca il governo con l'argomento della «inaffidabilità» di Gheddafi. In effetti, Berlusconi si è lasciato andare, nel recente passato, a un eccesso di autocompiacimento e di ottimismo. Presentando le relazioni fra Italia e Libia come un paradigma di perfezione. La realtà è un'altra, come vediamo in questi giorni. Tuttavia, se davvero il colonnello è «inaffidabile» (e certo lo è), non si vede come si possa controllarlo se non attraverso una linea di pragmatismo realista. E nella sostanza l'Unione non propone nulla di diverso — almeno nei giudizi di Fassino e Rutelli — da quello che sta facendo il governo di centro destra. I richiami al fatidico «scontro di civiltà» appartengono a un'infima minoranza. Nel caso in questione, è il solo Calderoli a usare un certo linguaggio, fiero di essere stato «scagionato» da Gheddafi, da un lato, e insultato, dall'altro. Ma la grande maggioranza di politici si muove con prudenza.

 

 

 

 

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