Gheddafi muta l’arma di ricatto. Prima usava i clandestini, ora minaccia

Del 6 marzo 2006 da Il Foglio

Roma. Le reazioni di governo e opposizione alle minacce di Gheddafi sono state diplomatiche, ma né Gianfranco Fini né Piero Fassino nascondono l’irritazione. Per il ministro degli Esteri si è trattato “più di un comizio che di una presa di posizione internazionale”, che “non deve impressionare”. Il segretario dei Ds si è augurato che le minacce siano solo “estemporanee e occasionali”. “Le relazioni tra Italia e Libia sono forti e complesse e devono essere basate su rispetto e cooperazione – riconosce il leader dell’Unione Romano Prodi – Sono rapporti improntati su odio e amore”. Il governo continua a interpretare gli ultimi avvenimenti – anche l’assalto al consolato di Bengasi del 17 febbraio – quali sintomi di una crisi interna (la scarcerazione dei Fratelli musulmani e la quasi legalizzazione dell’organizzazione confermano questa versione) ma soprattutto delle pretese insaziabili di Gheddafi che, a seconda delle contingenze, batte cassa a Roma per presunti “debiti” del colonialismo. E’ come con l’obelisco di Axum: fu restituito con mille scuse anche se non era bottino di guerra, ma un omaggio solenne del clero cristiano in Libia alla città di Roma. Nel discorso della Sirte, Gheddafi è stato chiaro: “Se l’Italia vuole che le sue compagnie e ambasciate e i cittadini residenti in Libia vivano in pace, deve pagare il prezzo”. E’ un ricatto esplicito, da estorsore, che scuote otto anni di impegno bipartisan dei governi di Ulivo e Cdl per normalizzare le relazioni. Il primo schiaffo in faccia risale al 1970: Gheddafi espulse 20 mila italiani dalla Libia e sequestrò beni e aziende senza indennizzo. Si aprì un contenzioso (tenuto in sordina da Roma), che non impedì alla Lafico libica di entrare, nel dicembre 1976, nel capitale sociale della Fiat. Nel sistema di relazioni oggi pesano le corpose forniture energetiche: l’Italia ha importato nel 2004 mezzo miliardo di metri cubi di gas dalla Libia, pari allo 0,8 per cento delle nostre importazioni, tramite il gasdotto Greenstream, che arriva in Italia da Gela. Le nostre imprese laggiù sono circa 50, soprattutto nel settore petrolifero, con l’Eni, presente sin dal 1959, più importante operatore estero. Nel 1986 la Libia aprì una crisi internazionale per le acque del Golfo della Sirte – che furono abusivamente dichiarate “territoriali” – chiusa dai bombardamenti americani su Tripoli. Fu colpito anche il palazzo di Gheddafi (pare sia stata uccisa una figlia), che si vendicò lanciando un missile Scud contro Lampedusa. Un gesto simbolico, senza conseguenze militari, ma di gravissima portata (soprattutto perché a opera di un socio Fiat). Tuttavia, come ricorda il ministro delle Attività produttive, Claudio Scajola, “i contratti con Tripoli sono stati rispettati anche nei momenti di maggiore difficoltà”. Nel settembre di quello stesso anno la Lafico libica uscì dal capitale dell’industria torinese con una generosa buonuscita di tre miliardi di dollari per una quota che dieci anni prima aveva pagato soltanto 400 milioni. Da D’Alema a Berlusconi Fino al 1998, le relazioni politiche italo-libiche sono rimaste congelate per l’embargo dell’Onu contro Tripoli dopo gli attentati libici a un aereo della Pan Am a Lockerbie e a quello della francese Uta in Nigeria. Quando il governo libico ammise le sue responsabilità e prima che l’embargo fosse revocato nel 2003 su richiesta dell’Italia, l’allora ministro degli Esteri Lamberto Dini e poi Prodi – come presidente della Commissione dell’Ue – incontrarono Gheddafi per ricucire i rapporti. Fu Massimo D’Alema, nel 1999, il primo capo di governo a incontrare il colonnello a Tripoli. Ma soltanto con i quattro viaggi di Silvio Berlusconi, tra il 2002 e il 2005, le piene relazioni tra i due paesi sono state ristabilite. L’Italia ha giocato un ruolo chiave – riconosciuto anche dal presidente degli Stati Uniti, George W. Bush – nella rinuncia definitiva dei libici alle armi di distruzione di massa nel febbraio 2002. Resta sempre aperto però un contenzioso reciproco. Gheddafi vuole enormi risarcimenti per il periodo coloniale, in forma di finanziamenti per infrastrutture e ospedali (tra le altre cose, il “regalo” di un’autostrada costiera di 1.600 chilometri del costo di 3,6 miliardi di dollari), in parte già ottenuti. L’Italia chiede il risarcimento dei beni degli italiani espulsi nel 1970, per un miliardo di euro. Fino a ieri Gheddafi, nei momenti di crisi, lasciava partire carrette colme di immigrati verso Lampedusa, nonostante i 15 milioni di euro promessi dal Viminale. Oggi, dopo che lo scorso 7 ottobre è stato ripristinato il “giorno della vendetta contro l’Italia”, torna a minacciare la vita degli italiani.

 

 

 

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