Tutti gli uomini del Colonnello
di Ettore LiviniDel 27 ottobre 2008 da La Repubblica
A volte ritornano. Trent' anni fa Gheddafi aveva messo a rumore Piazza Affari (e fatto tremare il Dipartimento di Stato a Washington) comprandosi il 13% della Fiat. Oggi la Libia Spa rientra in Italia dalla porta principale. Rastrellando in Borsa nel giro di poche sedute quasi il 5% di Unicredit. E candidandosi a recitare un ruolo attivo nell' eterna lotta dei poteri finanziari di casa nostra attorno all' ombelico di Piazzetta Cuccia. Gli uomini, dall' epoca del deflagrante sbarco al Lingotto, non sono cambiati poi molto. C' è il colonnello, arricchito dal boom del greggio e sdoganato dalle diplomazie occidentali. Ci sono le sue fedelissime teste di ponte nel mondo della finanza.Manager cresciuti tra le fila del Comitato generale del popolo e passati dalla vecchia Lafico alla Libyan Investment authority (Lia), l' Iri d' Africa. Un fondo sovrano, si dice oggi, nato due anni fa e già forte di una dote di 65 miliardi di dollari da investire sui mercati internazionali. La vera novità è che Tripoli, questa volta, sembra essere sbarcata in Italia per restarci a lungo. E non per recitare un ruolo da comparsa. La banca di Alessandro Profumo dicono fonti vicine ai manager africani è stato solo il primo passo. Un bel pacchetto di petrodollari è già stato offerto ai vertici Telecom, in cerca di nuovi soci per puntellare i conti. Ma la stangata, il colpo grosso, il vecchio pallino dell' estabilishment libico è l' Eni. Il cane a sei zampe vanta da decenni rapporti consolidati con il paese. Investiva sull' altra sponda del Mediterraneo quando il Colonnello Gheddafi era etichettato da buona parte del mondo come un pericoloso terrorista. Ricava il 17% della produzione di petrolio proprio da giacimenti libici e gli storici legami tra le due parti sono stati rinsaldati di recente da sei nuovi contratti d' esplorazione e da un allungamento (pare di 40 anni) di quelli già esistenti. Mentre la Lia, dice il tam tam di Piazza Affari, si sarebbe messa in portafoglio quasi l' 1% del gruppo di Paolo Scaroni, in vista in futuro di un' alleanza ancora più organica. Progetti ambiziosi. Per cui i soldi non bastano. L' offensiva finanziaria, infatti, è stata accompagnata sottotraccia negli ultimi duetre anni da un fitto lavoro diplomatico. Culminato politicamente nell' accordo per la chiusura del contenzioso coloniale ma il cui effetto collaterale (meno visibile ma altrettanto importante) è stato la nascita di una nuova magmatica ragnatela di alleanze che parte da Cesare Geronzi, di cui Tripoli è stata a lungo apprezzata socia in Capitalia, passa da Tarak Ben Ammar per arrivare fino a Silvio Berlusconi e a Gianni Letta. Una entente cordiale che grazie al peso politicoistituzionale dei soci italiani e ai soldi del partner libico è potenzialmente in grado di giocare un ruolo da pivot nel riassetto di potere in corso nella stanza dei bottoni della finanza italiana. L' arrivo del Colonnello. La strada da Agnelli e la Fiat fino a Unicredit è lunga e ricca di colpi di scena. Lo sbarco in Italia di Gheddafi è partito quasi per caso. «Venne a Tripoli un dirigente di Torino, basso e anziano, e ci chiese di comprare una quota nel Lingotto ha ricordato anni fa Regeb Misellati, ex governatore della Banca centrale e per anni plenipotenziario libico in Italia non sapevamo cosa fare. Poi ci chiamò il maggiore Jalloud, il braccio destro del presidente, dicendoci che l' affare era di interesse nazionale». È comprensibile. Allora Tripoli era tagliata fuori dal mondo e l' investimento in Fiat era il biglietto da visita, il fiore all' occhiello con cui iniziare il grande salto verso l' occidente e la grande finanza. Più opportunismo che strategia, insomma. «In quegli anno la Lafico si muoveva un po' a caso racconta un banchiere che curò all' epoca queste operazioni con l' obiettivo da una parte di accreditarsi e dall' altra di guadagnare». Obiettivi entrambi centrati. La banca libica, in effetti, è uscita nel 1986 dal suo primo investimento in Fiat con un guadagno netto superiore al 1.000%. Duecento milioni di dollari investiti, 3 miliardi incassati dopo dieci anni. L' incontro con Geronzi. Nel 1997, un altro finanziere italiano è tornato a bussare a Tripoli. Vincenzo Maranghi. Era novembre. La Banca di Roma di Cesare Geronzi doveva coprire 2.700 miliardi di perdite. Serviva con urgenza un aumento di capitale (sembra oggi). E il delfino di quell' Enrico Cuccia sulla cui poltrona siede oggi ironia della sorte lo stesso Geronzi, riuscì a convincere la Lafico a entrare con il 3% nell' azionariato dell' istituto capitolino. Il legame tra il banchiere capitolino e Gheddafi, la prima pietra di quella rete di alleanze che si sta cementando in questi mesi, inizia da qui. Banca di Roma nel cui patto è entrata anche Fininvest e la Libia hanno costituito assieme la Ubae, una banca araba in Italia che funziona a pieno regime ancor oggi e di cui è stato vicepresidente Mario Barone, ex ad (e responsabile di tutti gli affari esteri) dell' istituto romano e uomo da sempre vicino a Giulio Andreotti. Amhed Menesi, exgovernatore della Banca centrale di Tripoli è stato a lungo nel cda della nuova Capitalia. «Con il nostro azionista libico abbiamo una frequentazione abbastanza abituale», ha chiosato Geronzi. La Lafico, ormai un cliente abituale di Piazza Affari, è entrata nel frattempo nel capitale della Juve, rientrata in Fiat (dal 2002 al 2006), ha affiancato Paolo Andrea Mettel e Gaetano Miccicchè oggi ai vertici di IntesaSanpaolo nel tentativo fallito di rilanciare Finpart e il Cotonificio Olcese, corteggiato la Lazio, garantito fidejussioni al Perugia di Cesare Gaucci (dove ha giocato per un periodo anche un figlio del Colonnello). Ma la stella polare di Tripoli è rimasto sempre l' asse privilegiato con la stanza del presidente di via Minghetti. La nuova rete. Gli investimenti un po' anarchici di inizio millennio hanno lasciato un brutto ricordo (e qualche centinaio di milioni di perdite) alla Lafico. Che dopo la nascita della Lia nel 2006 ha deciso di razionalizzare i suoi progetti, facendo leva sui rapporti istituzionali costruiti negli ultimi anni. I rapporti commerciali con l' Italia vanno a gonfie vele. «L' interscambio cresce a ritmi del 25% annuo», dice Antonio De Capoa, numero uno della Camera di Commercio italolibica. Tripoli è entrata nel capitale della Retelit e ha firmato un accordo con Sirti nelle tlc. Italcementi e Impregilo, oltre all' Eni, hanno ottenuto importanti commesse sull' altra sponda del Mediterraneo. Le ambizioni del colonnello però guardano più in alto. Dove serve non solo la copertura di vecchi soci come Geronzi, ma anche la sponda della politica. E i fatti degli ultimi mesi spiegano da soli come l' asse con Silvio Berlusconi già consocio in Capitalia si sia poco alla volta consolidato. Prima con la firma in pompa magna della chiusura del contenzioso coloniale, messa a punto dal governo Prodi ma arricchita da quello del Cavaliere di una serie di nuove concessioni, dalla restituzione della Venere di Cirene al ritocco all' insù degli stanziamenti per la maxiautostrada. Non solo. Nel costituendo Comitato strategico esteritesoro per gli investimenti stranieri (e libici) in Italia, secondo indiscrezioni, ci saranno Giancarlo Innocenzi, ex deputatosottosegretario di Forza Italia e uomo Fininvest e il commercialista Enrico Vitali, socio dello studio tributario di Giulio Tremonti.